mercoledì 30 aprile 2014

Manca il festeggiato


Abbiamo cominciato - a mia memoria "commerciale" - con la festa della mamma, che ha fatto la fortuna dei venditori di rose rosse; abbiamo proseguito con la festa degli innamorati, in un tripudio di baci Perugina e immaginette sacre dei fidanzatini di Peynet; e ancora con la festa del papà e le sue noiosissime cravatte regimental e i disgustosi dopobarba; poi è arrivata la festa della donna che una volta si chiamava giornata ma ai fini del mercato era poco vendibile ed è diventata festa pure quella: mimose a strafottere, spogliarelli maschili per sole donne, gadget, mariti premurosi, cena al ristorante e tutto quello che contraddice lo spirito della giornata.
A un certo punto le feste sono diventate un esercito: festa dei nonni, festa del gatto, festa del cane, festa del canarino... tutte feste da un giorno. A mezzanotte ridiventano zucche: poi si può riprendere ad ammazzare la madre (sembra sia diventato lo sport nazionale), a tenere sulla corda la fidanzata non telefonandole per una settimana intera, a cornificare la moglie, ad abbandonare il cane, a seviziare il gatto, a farsi il canarino alla brace e senza nemmeno la buccetta di limone. Un giorno per il business è più che sufficiente, anche perché ce n'è una al giorno e l'intero anno è coperto, domeniche e feste comandate comprese, durante le quali i negozi restano aperti in nome del profitto e alla faccia del diritto del lavoratore al riposo. Strano che qualcuno non abbia ancora inventato un calendario apposito con tutte queste feste del piffero, da mettere in vendita nei migliori negozi di gadget e da regalare proprio in occasione di ciascuna di queste feste. Potrebbero chiamarlo, che so, il calendipocrita.
Oggi è la festa del lavoro, una delle più antiche, che non è una festa commerciale ed è una delle poche che il mercato non sia riuscito a fagocitare. Dev'essere per questo che la vorrebbero cancellare, e anche perché ricorda i diritti ottenuti con le lotte.
Però oggi anche questa rischia di diventare una festa ipocrita, perché oggi c'è un problema: manca il festeggiato. Mi chiedo perché si continui a chiamarla festa del lavoro e non, invece, festa del disoccupato. Oppure, visto che la funzione di queste feste è di prendersi per il culo fingendo di prendersi cura, perché non si istituisca una volta l'anno anche la festa del disoccupato.
Ah, già: il disoccupato ha poco da festeggiare e soldi da spendere non ne ha. Quindi, per lui, neanche un giorno l'anno per parlarne: basta la festa del lavoro per ubriacarci di dati statistici e parole vuote sulla disoccupazione. E alla fine della giornata, chi non ha lavoro vada a farsi fottere. Se non puoi spendere, non esisti e il mercato di te non sa che farsene nemmeno per farti a pezzi e venderti per carne da macello da fare alla brace. E neppure per vendere ai polli ciocche di capelli bisunti o pezzi ammuffiti dei tuoi vestiti come si fa al mercato della fede.

martedì 29 aprile 2014

Meglio un gatto

Ho letto da qualche parte che in un'università della Nuova Zelanda, per contrastare una evidentemente incontenibile diffusione di topi, si sono inventati una specie di caccia al tesoro - caccia al ratto, ovviamente - con tanto di premio finale: gli studenti, armati di trappole e di tutto il necessario (non so se nel kit sia compreso anche il sangue freddo), dovranno uccidere gli animali e poi presentarsi al pub della facoltà e ricevere una birra per ogni topino giustiziato. Tralascio il raccapriccio al pensiero che per una pinta si possa arrivare ad uccidere - sia pure soltanto un sorcio -, glisso sulla motivazione ufficiale della scelta (la solita, il passepartout grazie al quale ci fanno bere qualunque porcheria: la crisi) e mi chiedo se siano state fissate delle regole (tipo: divieto di cacciare a strascico) o delle soglie (un topo al giorno, al massimo due il sabato sera?) per calmierare il numero di birre conquistate. No, perché, se non l'hanno fatto, il rischio è che diminuiscano i topi e aumentino gli alcolisti. E dopo dovranno inventarsi qualcosa per guarire gli studenti dalla dipendenza da alcol. Ma non era meglio il classico gatto? Per cacciare i topi, ma anche per scacciare il disagio. Perché è un dato di fatto che se tanti giovani hanno tanto bisogno di bere (non solo in Nuova Zelanda), qualche problema ce l'hanno. E allora meglio un gatto: non risolve i problemi della disoccupazione e del sentirsi alieni in un mondo che non sa accogliere più nessuno, ma almeno ti riempie di coccole. E lo fa gratis.

lunedì 21 aprile 2014

vaiacagare@

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Stamattina nella mia casella di posta elettronica ho trovato la mail di un berlusconide che mi faceva gli auguri per la "principale festività del Cristianesimo". Ecco, appunto, a parte che non so per quale ragione hai il mio indirizzo privato ma - riappunto - hai sbagliato indirizzo.
"E' da qualche tempo che non comunico con Voi". Ah, sì? Strano, non me n'ero accorta. Sarà perché non ho affatto sentito la tua mancanza?
Comunque, il berlusconide in questione infila tutta una serie di minchiate che non so da quale cominciare. Del genere: "È meraviglioso il sostegno che mi avete dato nelle ultime elezioni amministrative di Roma Capitale che ha visto più che raddoppiare il mio consenso elettorale". A parte che non sono residente e non avrei potuto anche volendo, ti do una notizia: non avrei votato per te neanche sotto tortura.
Dopo di che prende spunto dalle parole chiave di questa strana giornata internazionale dei prestigiatori, in cui la gente appare e scompare e poi riappare con una facilità tale che non c'è nemmeno bisogno di chiamare Chi l'ha visto, "per augurare a tutti che si possa presto arrivare alla risurrezione etica e morale che serve all'Italia ed ai cittadini per programmare in modo sereno la propria vita e iniziare nuovamente a sognare per i nostri figli". Ah, e perché lo racconti a me e non al tuo capo? Hai presente il vecchio porco che fotte le minorenni e lo Stato? Ecco, lui. Perché non lo racconti a lui?

In un crescendo di stucchevoli notizie e con tanti ringraziamenti da parte dei diabetologi, il consigliere comunale stravotato ma mancato ("a causa", scrive lui, dell'elezione di Marino) spiega il prolungato silenzio postelettorale con una "profonda riflessione politica" che lo ha spinto a "credere più di prima nell'Italia, nella nostra storia, negli italiani ed ho deciso, per questo, di continuare, attraverso il partito di sempre, a dare il mio contributo politico come cittadino a tutti gli italiani, a chi crede ed ha creduto in me in questi anni". Certo, tenuto conto che non vi arrestano nemmeno se vi mettete a sparare con i bazooka correndo per le vie del centro, perché mai smettere? Non fa una piega.


Il fiume di miele continua con tutto un mettersi a disposizione e uno starci vicino e un reiterare auguri di qua e auguri di là. Ma è quando sono sul punto di vomitare che sono colpita da un particolare: l'indirizzo mail da cui è partita la lettera a un numero indeterminato di inconsapevoli e incolpevoli destinatari è buonapasqua@nomeecognome.it. Cioè tu mi vuoi dire che sei così ben organizzato, tu o il tuo "staff" (immagino che per te sia disdicevole chiamarli collaboratori), da avere un indirizzo mail per ogni occasione e ogni circostanza? Di solito, gli uomini "normali" ne hanno uno per ogni amante (e lo sanno solo loro come fanno a non confondersi), e tu mi vuoi dire che ne hai uno per natale, uno per ferragosto, uno per le elezioni amministrative, uno per quelle europee, uno per le politiche, uno per i compleanni, eccetera?
Per caso, ne hai una anche per quando lasci la fidanzata? Tipo: vaiacagare@nomeecognome.it


Concentrato di mondo


A volte mi capita, leggendo un romanzo che mi è stato regalato, non tanto o non solo di immedesimarmi nella storia (procedimento, credo, abbastanza comune), quanto di cercare in quel libro la persona che me l'ha dato. Nel tentativo - spesso vano e disperato - di capire cosa le passa per la testa, cosa avrebbe voluto dirmi e non mi ha detto, cosa ha detto a un'altra persona, cosa ha detto a me e a un altro miliardo di persone mentre io mi illudevo di essere l'unico interlocutore: nella speranza, insomma, di mettere insieme i pezzi del puzzle di una vita. E forse di essere uno di quei tasselli.
Inavvertitamente, il protagonista del romanzo prende le sembianze del donatore di libri e io comincio a scrivere un romanzo nel romanzo, innestando nelle pagine i miei dialoghi con lui. Senza distrarsi dall'obiettivo principale, il cervello si sdoppia e si incammina su un'altra strada, torna indietro, riprende il filo del precedente discorso, fa combaciare volti e pensieri, modifica eventi e continenti e - delirio di onnipotenza - perfino la struttura stessa del romanzo. Vedo un'altra me: la prima stravaccata in poltrona o su un gradino in una piazza assolata, il libro in mano, lo sguardo fisso sulla pagina come nell'osservazione di un seme che si fa germoglio; l'altra poco distante, in posizione leggermente superiore, che cuce e scuce, fa e disfa, cambia "location", trasforma una cima innevata in un'isola cotta dal sole, aggiunge nuovi personaggi, assegna ai legittimi inquilini della storia sembianze familiari.
Romanzo epico alla fine e affollatissimo da personaggi che via via si aggiungono a quelli delineati dall'autore: protagonisti di altri romanzi ricevuti in dono dalla stessa persona e della quale di volta in volta assumono sembianze, parole, pensieri, sguardi; e, con loro, i protagonisti di altri libri dimenticati che inaspettatamente prendono forma dagli scaffali delle librerie. Un mondo intero, un concentrato di mondo, dove i personaggi - le persone - pullulano e brulicano intrecciando le loro storie a quelle di altri, assimilano secoli, equiparano località geografiche, in una sorta di unità di tempo, di luogo e di azione di una commedia umana dove alla fine, al pari di un kolossal pieno di comparse, l'attenzione si concentra - come in una scena quasi totalmente buia - soltanto su un protagonista e un deuteragonista.
Dev'essere questo il bello dei libri: che ogni libro te ne fa scrivere un altro; che ti fanno vivere una vita e mille vite insieme; che dentro ci puoi mettere le persone che vuoi.

venerdì 18 aprile 2014

Ciechi


Chissà se qualcuno della mia generazione se ne ricorda. Alla scuola elementare a un certo punto ci misero in mano una specie di mattonella di spugna e ci consegnarono un punteruolo: dovevamo imparare a scrivere in Braille.
Non so se si facesse anche nelle altre scuole; non so nemmeno se lo facevano nelle classi maschili. Probabilmente pensavano che fosse una cosa da femmine. Lavoro di precisione, nel quale procedevamo in maniera incerta, come incerto e confuso è oggi il ricordo. Ma è certo che serviva a farci conoscere un'altra realtà, a farci sapere che c'erano dei bambini come noi che invece che con gli occhi vedevano con i polpastrelli e che forse grazie a quelle tavolette bucherellate da noi in maniera imprecisa quegli altri bambini avrebbero letto e scritto. Convivenza con la disabilità, senso di solidarietà.
Dev'essere per questo che stamattina mi ha fatto particolarmente male vedere imbrattati di vernice i nuovi cartelli turistici scritti in Braille in una delle strade del barocco catanese: piccoli segnali di civiltà in una città che a fatica tenta di riemergere da un quindicennio in mano ai barbari, ma che a qualcuno danno fastidio, tanto fastidio da non esitare a fare uno sfregio alle persone disabili.
Forse oppositori, accecati dal loro rancore; forse semplicemente dei cazzoni, resi ciechi dalla loro ignoranza.

mercoledì 16 aprile 2014

Dispari


Io avrei potuto fare quello che voleva mia madre: frequentare quelli che contano (nel senso che contano i soldi fatti chissà come), non farmi sfuggire il marito medico, non sputare nel piatto in cui mangiavo (cioè scrivere un pezzo sul monopolio dell'informazione in Sicilia), assecondare i rituali barbari della "grande famiglia" con tanto di auguri natalizi e srotolamenti di lingue.
E poi, per analogia e conseguenza, immagino: non lasciare un partito grande e avviato verso una grande deriva immorale per approdare ad un piccolissimo partito di gente per bene che vive di ideali egualitari, leccare il culo al padrone, svendere i miei colleghi per diventare servo in capo, approfittare di amicizie politiche per fare carriera, alla fine perfino candidarmi in un qualunque merdoso partito democristiano che non chiedesse a me una candidatura di servizio ma mi garantisse l'elezione.
Insomma, avrei dovuto mettermi il cervello nei piedi e camminare a testa in giù e magari rispondere alle critiche facendomi scudo di presunte gelosie e invidie che si scatenano di fronte alle donne in carriera, elogiando le liste che "si colorano di rosa" (sto per vomitare) e invocando - ché quelle stanno bene dappertutto, come il prezzemolo o come il nero soprattutto se è un tubino - le pari opportunità che finalmente producono i loro frutti.
Che poi spesso significa che le donne - più brave anche in questo - sanno essere più stronze degli uomini. Se queste sono le pari opportunità, io voglio restare dispari.

sabato 12 aprile 2014

Bufala laica


La cosa più divertente è pensare a quanti soldi perderebbe la chiesa cattolica. Che poi è lo stesso motivo "etico" - i soldi, intendo - per il quale preti e medici cattolici si sono sempre opposti al divorzio e all'aborto.
La Corte europea ha sancito con una sentenza che battezzare i bambini è una porcata, accogliendo il ricorso di una donna italiana al cui bambino neonato era stato imposto di essere cattolico senza che lui - ovviamente - ne sapesse niente. Il padre del bimbo e i nonni paterni lo avevano battezzato contro il parere della madre, ma i giudici hanno detto che si tratta di violenza psicologica e gli hanno rotto il giocattolo (ai preti, non al bambino). O, meglio, il business.
La "notizia" è riportata da un giornale on-line, secondo il quale per i giudici di Strasburgo "L’Italia, permettendo il battesimo ai neonati viola la carta articolo 9 della Convenzione Europea in combinato disposto con l’articolo 14, in quanto i neonati non sono ancora in grado di intendere e di volere o emettere un atto personale e cosciente e, nella fattispecie sono obbligati e far parte di un associazione religiosa per tutta la vita. L’imposizione del rito chiamato sacramento tradisce il carattere di una dottrina che considera le persone come oggetti, il cui destino è deciso a loro insaputa da una organizzazione religiosa. Infatti, il battesimo impone al battezzato un sigillo indelebile, facendolo diventare a tutti gli effetti un iscritto e membro a sua insaputa e volontà e assoggettandolo alla suoi regolamenti e alla sua autorità. Come si evince nel canone 96 del Codice Cattolico di diritto canonico: «mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in essa è costituito persona, con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri». Questa pratica lede il superiore interesse del bambino: sancito dall’art. 3, dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991 con la legge n. 176. che prevede che in ogni decisione, azione legislativa, provvedimento giuridico, iniziativa pubblica o privata deve salvaguardare l’interesse superiore del bambino".
E, secondo lo stesso "giornale", "Il Governo Italiano, entro 6 mesi (pena le sanzioni previste per le procedure di infrazione) dovrebbe adottare le relative riforme di Legge per rimediare alla violazione".
Ora, siccome siamo in Italia e in Italia i governi sono da un settantennio a trazione vaticana (oltre che mafiosa e massonica, cose che spesso coincidono come la santissima trinità), se la notizia fosse vera, io dubito fortemente che nessun governo entro sei mesi e nemmeno entro sei decenni farebbe una legge per adeguarsi a simili direttive dei giudici di Strasburgo.
E infatti la notizia non è vera e il "giornale" è un sito di satira (per dovere di cronaca, è il corrieredelmattino), che per un attimo ci ha fatto sognare. Anzi, ci ha regalato due sogni in uno: ottenere una specie di risarcimento morale per il mancato pagamento dell'Imu e denunciare una suocera che non si fa i cazzi suoi. Vuoi mettere la soddisfazione?
Su, ora svegliatevi, archiviate questa bufala laica, andate a comprare agli angoli delle strade una palma pasquale che non ho mai capito a che cazzo serve se non a sfregiare un po' di piante, indossate il sorriso più ipocrita che avete e andate a trovare la vostra cara mammina acquisita. Smack smack.

venerdì 11 aprile 2014

Anche

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Ci ho messo anni, ma alla fine l'ho capito perché gli editori rifiutano i lavori inediti senza nemmeno averli letti. Il più delle volte, anzi, manco ti rispondono; le poche volte in cui lo fanno, ti liquidano con un must della presa per il culo: "Il suo lavoro non rientra nei nostri piani editoriali".
Poi ci sono anche quelli che ti rispondono, perché "abbiamo apprezzato molto la sua Opera" (maiuscolo, così per un attimo ti convinci di avere scritto La Divina commedia) e ti fanno una "proposta editoriale": sarebbe che tu gli dai una vagonata di soldi che ti ci potresti comprare un'intera libreria e loro pubblicano il tuo libro anche se è una cagata pazzesca. Ma questa è un'altra storia. O, se preferite, l'altro lato di una medaglia di latta.
Dunque, quelli che rifiutano il tuo lavoro senza leggerlo non lo fanno perché non sei raccomandata dalle suore, perché non sei un calciatore, perché non sei un ospite fisso di una trasmissione tv, perché non sei una velina, perché non sei una ninfomane che racconta le sue scopate con mezzo mondo titillando le frustrazioni erotiche dell'altro mezzo, perché non hai ammazzato tutta la tua famiglia.... No, loro lo fanno per grande altruismo, lo fanno per te. Per essere precisi, lo fanno per far esplodere la tua autostima fino a quel momento repressa.
Sì, perché è quando ti arriva la famosa lettera aperta con mani tremanti, è quando scopri di non rientrare nei loro piani editoriali, è in quel preciso momento che cominci a smanettare su Internet. Cerchi "case editrici" e inconsapevolmente ti ritrovi a soffermarti su tutti i link che cominciano per "anche". Dove "anche" sta per Primo Levi, Beppe Fenoglio, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Clicchi su "anche" e trovi Carlo Emilio Gadda, un altro "anche" e ti spunta Alberto Moravia, prosegui bulimicamente nel clic compulsivo e da ogni "anche" scaturisce un Andrea Camilleri, un Herman Melville, un Gabriel Garcia Marquez: anche i loro libri sono stati rifiutati dalle case editrici. E' il circolo letterario degli sfigati.
Ma a questo punto non c'è più alcun dubbio: gli editori lo fanno per te, perché è solo grazie al loro rifiuto che prenderai coscienza di te. E, grazie a loro, cominci a ripeterti: anche io sono un genio incompreso, anch'io sarò scoperto e pubblicato da un grande editore, anche i miei libri avranno un successo mondiale. Ma anche no.

mercoledì 9 aprile 2014

Disordine nuovo


Avete presente quelli che sposano una donna ricca e potente, ma non troncano mai il rapporto con l'ex fidanzata? Un'amante fa sempre comodo in un matrimonio d'interesse: quando la riccona comincia a schiavizzarti, hai sempre quell'altra fra le cui braccia rifugiarti. E non devi nemmeno fare la fatica di ricominciare ogni volta con una nuova, corteggiare, imparare gusti, assecondare capricci inediti.
E' esattamente quello che mi è venuto in mente guardando i simboli depositati per le prossime elezioni europee. Già, perché, distratti tutti (contagiati, come spesso avviene, da una certa comunicazione letteralmente del cazzo) dal simbolo del partito del bunga bunga, probabilmente in pochi si sono accorti che fra gli altri c'era pure quello con la quercia e la rosa che aveva già sostituito la piccola falce e martello nelle radici. I segni del tradimento c'erano già.
Sono a distanza di sicurezza, appena tre posti fra l'uno e l'altro: prima c'è quello nato da madre incerta e padre democristiano (affettuosamente chiamato Pd) e poi quello dei Ds.
No, tranquilli, alla fine non la presenteranno la lista. E' messa lì come deterrente, per evitare che qualche altra amante pretenziosa prenda il posto della prima. Ma non torneranno dalla fidanzata e non lasceranno la moglie: quella è una tradizionale famiglia cattolica basata sull'ipocrisia, con amante compresa nel prezzo. Al massimo, qualche volta lui porterà in giro la sua ex per farsi bello con gli amici. Oppure si ritroveranno a Torino, per una due giorni scopa e fuggi, nella casa di Gramsci trasformata in albergo di lusso: l'apoteosi del tradimento. Per sua fortuna Gramsci è morto e non dovrà patire l'ulteriore pena del disordine nuovo.

giovedì 3 aprile 2014

Una crosta rinnovabile

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Siccome è uscita intorno al primo di aprile e, come tutte le belle notizie uscite intorno al primo di aprile (tipo, l'arresto di Berlusconi o le dimissioni di Renzi; no, quella del cosiddetto garante della Costituzione che riceve il pregiudicato invece era uno scherzo di pessimo gusto, ma non era un pesce d'aprile) rischia di evaporare fra un paio di giorni, sarà meglio prenderla al volo.
La storia è quella dell'operaio siracusano emigrato a Torino e rientrato nella sua città da pensionato, che per anni ha tenuto appese in cucina, credendole due croste, una tela di Paul Gauguin e una di Pierre Bonnard. Valore economico: alcune decine di migliaia di euro. Valore culturale e umano: incommensurabile.
Non mentite: la prima cosa che vi è venuta in mente è la stessa che è venuta in mente a me. Che culo!
Eppure, se la storia è vera - e io spero che lo sia - è l'esatto contrario delle congiunture astrali o della benevolenza di qualche divinità priva di vista: è l'elogio del lavoro, dello studio e della ragione. Perché quell'operaio quei quadri li aveva comprati quarant'anni fa a un'asta di quartiere solo grazie a un'innata sensibilità per l'arte e soprattutto quell'operaio - come molti siciliani - in quegli anni aveva lasciato la Sicilia per andare a lavorare alla Fabbrica e in quella fabbrica che oggi ha cambiato nome e nazionalità, come in tutte le altre fabbriche, a quel tempo i lavoratori - grazie alle loro stesse lotte - avevano dei diritti. C'era, per esempio, quell'animale mitologico chiamato lavoro a tempo indeterminato che ti permetteva di vestirti dignitosamente, comprare qualcosa per arredare la casa, tornare in Sicilia un paio di volte l'anno per le vacanze e principalmente di fare studiare un figlio.
Che in questo caso è il deus ex machina della situazione. Il ragazzo studia Architettura, è appassionato di pittura e con quei due dipinti c'è cresciuto. E' stato grazie ai libri di storia dell'arte che ha capito il valore di quegli olii costretti per anni ad assorbire l'olio di frittura. La sovrintendenza lo aveva preso per un visionario ma lui non s'è perso d'animo e si è rivolto ai carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale. Aveva ragione lui. In un'intervista ha detto: "Meno male che li ho studiati".
Già, appunto: meno male che li ha studiati, meno male che ha studiato. Grazie ai sacrifici di una famiglia operaia.
La questione vera però è un'altra: lui adesso ha questa fortuna in casa, ma quando si laureerà - come tutti i suoi coetanei colpevoli di vivere in un Paese senza diritti - per lui trovare un lavoro che gli consentirà a sua volta di fare studiare i propri figli sarà come scoprire di avere un Gauguin in cucina. E allora sì: che culo! Ma ho idea che al massimo gli rifileranno una crosta, una patacca rinnovabile di tre mesi in tre mesi.