mercoledì 8 agosto 2018

Le mie Clarks mai calzate

Diversi anni fa, in viaggio per l’Europa, mia madre mi chiese che regalo volessi portato dall’Inghilterra. Senza un attimo di esitazione, chiesi un paio di Clarks. Dove per me Clarks significava dinoccolate polacchine d’antan, che in Italia costavano (e continuano a costare) un botto e che a me piacciono anche se non si chiamano Clarks. Non avevo tenuto conto del fatto che mia madre non aveva i miei stessi riferimenti modaiol-politico-culturali e soprattutto che quel marchio produce centinaia di modelli diversi.
Tornò in Italia e, orgogliosa, mi consegnò lo scatolo, precisando che aveva scelto il modello più nuovo (e, implicitamente, più costoso): uno scarponcino di pelle marrone scuro, pesante, rigido, a punta quadrata, niente a che vedere con la naturale eleganza di quei Desert  Boots che avevo desiderato per anni. Orribile. Non sono mai riuscita a metterle (con grande senso di colpa per lo spreco di denaro) quelle Clarks, perché mi facevano stare male ricordandomi le calzature piene di sofferenza e vergogna indossate da un bambino un po’ più grande di me che frequentava la mia stessa scuola elementare.
Quel bambino non aveva avuto la fortuna di vaccinarsi in tempo contro la polio ed era rimasto con una gamba più magra e più corta dell’altra e quelle scarpe ortopediche ne erano la testimonianza sfacciata, nemmeno nascosta dai pantaloni perché a quel tempo i maschi portavano i calzoncini corti fino ai primi anni del liceo.
Ecco: al di là del calvario, delle visite mediche, delle terapie dolorose, della disperazione dei genitori, forse possiamo solo provare a immaginare cosa sia stato per lui – una volta adolescente – rinunciare a fare il filo a una ragazzina che gli piaceva, per paura di essere considerato “difettoso” e rifiutato, o non poter indossare un paio di scarpe da tennis e correre come tutti gli altri suoi coetanei.
Certo, quel ragazzo poi ha indossato i pantaloni lunghi e calzato delle scarpe più decenti che non facevano vedere la sua menomazione, ha avuto una vita normale. Ma quanti bambini non vaccinati non arrivano a diventare ragazzi? Quanti non fanno in tempo ad assaporare il primo amore perché muoiono prima ancora di rendersi conto di essere vivi? Quanti non hanno avuto il tempo di desiderare di dare calci a un pallone?
Dovrebbero pensarci quelli che farneticano contro i vaccini e che costruiscono le loro fortune politiche sulla paura dei vaccini. Le multinazionali del farmaco non sono opere di beneficenza e puntano esclusivamente al profitto, e lo sappiamo, e per questo ci fanno schifo, ma chi punta al profitto politico assecondando e alimentando le paure di un popolo sempre più ignorante e lo fa sulla pelle dei bambini non fa altrettanto schifo? Io non voglio aspettare il momento in cui tutto questo gli si ritorcerà contro, perché significherà che tanti bambini si saranno ammalati e forse saranno morti. E sarebbe un prezzo troppo alto. 

martedì 7 agosto 2018

Disprezzato come uomo

Una volta si diceva «non sparate sulla Croce rossa». Un paradosso, impensabile e assurdo. Almeno finora. Leggo su un blog in cui viene illustrato il significato di alcuni modi di dire che questo indicava «una delle azioni più vili che poteva essere compiuta durante la guerra»: «Sparare sui soccorritori – c’è scritto – significava andare a colpire delle persone disarmate, innocue all’altro esercito e impegnate nel salvare vite umane. Chi si macchiava di questa colpa era disprezzato come uomo, prima ancora che come soldato».
Ecco, Matteo Salvini l’ha fatto, sia pure metaforicamente, abbattendo l’ultimo muro rimasto contro la crudeltà: il Ministro dell’Interno, uno “statista”, ha interrotto un suo comizio al passaggio di un’ambulanza e si è sentito spiritoso pronunciando queste parole: «Un attimo che c’è l’ennesimo rosicone di sinistra che non riesce a digerire».
Ecco, veda, signor ministro delle interiora, su quell’ambulanza ci poteva essere lei o un suo parente, magari uno dei suoi figli che chiama sempre in ballo quando cerca inutilmente di rendersi credibile, e con lei o con chiunque fosse là dentro è realistico che ci fosse tutta l’angoscia e il carico di sofferenza che si porta dietro un’ambulanza, dalla preoccupazione di medici e infermieri di non riuscire a salvare una vita umana al dolore di un cuore o di una gamba spezzati, all’angoscia dei familiari. Non c’è nemmeno bisogno di averlo provato, per sapere quanto un’evenienza simile possa far stare male. Io sto male anche soltanto a sentire la sirena dell’ambulanza, a immaginare cosa sta accadendo là dentro. Ma lei, con quella presunta battuta di spirito, ironizzando e facendo sciacallaggio mediatico sul dolore altrui, ha dimostrato ancora una volta (ma non è che ce ne fosse bisogno) quanto lei possa essere malvagio in maniera gratuita – roba che neanche in guerra, appunto – e quanto lei non sia all’altezza del ruolo che ricopre. Anche perché di solito uno non è che chiami l’ambulanza per sport: forse non lo sa, ma ci dev’essere un motivo davvero grave per farlo e lei, sparando sulla Croce rossa, merita di essere «disprezzato come uomo» prima ancora che come esponente delle istituzioni, quelle che una volta si scrivevano con la I maiuscola e che ora, con gente come lei al governo, meritano meno rispetto della merda.
Spero per lei che chi era dentro quell’ambulanza si sia salvato, perché in caso contrario lei andrebbe condannato per vilipendio di cadavere, articolo 410 del codice penale, da tre a sei anni di reclusione. In isolamento per di più, perché la cattiveria è una malattia grave e contagiosa (a giudicare da quelli che hanno applaudito). E non basta l’ambulanza.

domenica 5 agosto 2018

Il cliente ha (quasi) sempre ragione

Entro a comprare una lampadina. Prima di me c’è una signora che sta provando a farsi fare due euro di sconto su una cucina che ne costa 27. Sapete, di quelle a quattro fuochi, appena qualcosa di più di un cucinino da campeggio. 
Lo ha chiesto gentilmente lo sconto, eppure la proprietaria del negozio ha risposto in maniera aggressiva (ma il cliente non aveva sempre ragione? Anche perché potrebbe tornare) finché la signora se n’è andata, a testa bassa, come se dovesse scusarsi di qualcosa, magari di essere povera. Solo dopo che la signora era uscita e si era allontanata, la vigliacca le ha gridato dietro l’esortazione che da qualche tempo, da nord a sud, più  di quanto non facciano storia geografia e lingua, fa l’Italia unita: «Tornatevene a casa vostra!».
Sì, la signora era nera ed evidentemente secondo la commerciante, proprio per il colore della sua pelle, non aveva diritto di chiedere lo sconto come tutti gli altri.
Io sono rimasta lì come una scema. Umiliata. Impietrita. Inebetita. Resa impotente da tanta malvagità. Ho solo deciso fra me e me che lì non ci avrei mai più messo piede, ma dalla mia bocca non è uscita una sola parola. Eppure avrei voluto urlare. La rabbia, la paura, l’indignazione a volte paralizzano. Non posso non pensare alle donne violentate o molestate: non ha urlato – dice qualcuno -, non ha chiesto aiuto, si vede che le piaceva. E invece no. E invece vuol dire che il terrore ti toglie il respiro e la parola. Non sembri eccessivo il paragone, perché quella che ha dovuto subire quella signora (e io con lei, che ho assistito) – immotivatamente – è stata una violenza, tanto più cattiva in quanto gratuita, assurda. In fondo, non aveva fatto altro che quello che fanno tutti entrando in quel negozio nel cuore del mercato di una città del Sud, una di quelle città da cui si emigra da secoli e bisognerebbe essere più empatici: lì si contratta. Lo fanno tutti. Perché lei non avrebbe dovuto?
È passato più di un mese ma non riesco a darmi pace: incazzata con la commerciante, ancora più incazzata con me stessa per non aver avuto la forza di reagire. Mi sento una stronza, per non aver difeso quella signora e la nostra stessa umanità. E perché non riesco a capire quand’è successo che siamo diventati così cattivi, che abbiamo fatto saltare tutte le regole della civile convivenza. Persino quella – opportunista – del cliente che ha sempre ragione.