sabato 23 giugno 2012

La macchinetta da caffè di Mazzola e l'isola di Ibrahimovic

Sul grande terrazzo della gelateria - fra un fiorire di gonne a grossi quadri bianchi e neri, occhiali dalle montature "optical" e foulards alla Greta Garbo - svolazzavano le tovaglie di fiandra di un bianco estremo con sopra le coppe in silver per la cremolata e quei cucchiaini quasi quadrati e piatti che facevano andare il gelato dappertutto tranne che in bocca. Scendevi pochi gradini - quattro, forse cinque - e la pista era lì, i parenti li accoglievi sotto la scaletta dell'aereo, non c'erano misure di sicurezza, metal detector, 11 settembre, il latte detergente da lasciare in omaggio all'aeroporto perché poteva essere una bomba e paura degli altri. Eravamo lì mentre loro sbarcavano, persone normali, ma noi gli chiedevamo l'autografo. Mia madre tirò fuori dalla borsa un bigliettino da visita - minuscolo, poco più di un francobollo - e la penna stilografica. Dev'essere ancora da qualche parte, nel suo studio, in fondo a uno dei cassetti della scrivania, quel francobollino nel quale quelle undici firme si rincorrevano e si sovrapponevano in tutte le direzioni: Sarti, Burnich, Facchetti, Bedin, Guarneri...Mazzola...e poi il nero Jair al quale nessuno si sarebbe mai sognato di lanciare insulti xenofobi e Luis Suarez che somigliava a mio zio Biagio. Persone normali. Tempo fa ne ho visto uno in tv, uno di quell'epoca lontana, non era dell'Inter, ma la pasta era quella (peraltro, non un selvaggio analfabeta, ma un distinto signore che parlava un italiano forbito: perché in quell'epoca lontana lo sapevano tutti che la cultura è la più potente arma di riscatto), e diceva che per loro la più grande ambizione era comprarsi una casa a fine carriera. Come qualunque impiegato statale. Non la Maserati al primo anno, le ville, gli yacht, le puttane d'alto bordo e poi ancora le scommesse per fare più soldi e poi ancora soldi al quadrato (e c'è qualcuno che se li va pure a sbaciucchiare negli spogliatoi, schifosi e sudaticci, sperando di imitare Pertini mentre invece somiglia sempre di più a Cossiga). Sì, certo, anche allora il calcio era l'oppio dei popoli come nei millenni lo erano stati i circenses: calcio e religione, per rincretinire la gente. Ma almeno era un giorno solo, le mogli si lamentavano di restare sole a casa e comunque era sempre meglio di una malintesa emancipazione che le rende uguali ai selvaggi che hanno sposato e le fa urlare come forsennate per un goal mancato. Un po' per gioco, sono andata a cercare qualche notizia su Sandro Mazzola, Sandrino: Wikipedia lo mette fra i calciatori che hanno giocato per più di 15 anni nella stessa squadra. Valore antico la fedeltà. Eppure, chissà quanti lo avrebbero voluto. Giusto per dirne una. Ho letto il ricordo di suo padre, morto quando lui aveva soltanto sette anni: "Mio padre quando non si allenava mi portava a spasso". Per dirne un'altra. Ho guardato su youtube un filmato a casa sua: casa normale, di un normale impiegato che certo non ha il problema di arrivare a fine mese, ma normale: le foto del matrimonio, quelle della moglie, figli, nuore, il nonno al mare con i nipotini, le tendine della cucina, la macchinetta del caffè tipo bar da un centinaio di euro, come quella mia. Gli sento dire di avere "avuto la fortuna" di entrare nell'Inter "che in quegli anni vinceva tutto" senza nemmeno essere sfiorato dall'idea che se l'Inter in quegli anni vinceva tutto forse era anche perché aveva avuto la fortuna di avere Sandrino Mazzola fra i suoi calciatori. Per dire. Poi accendo la radio, ascolto il gr e mi raccontano che un supercoglione supermiliardario (guarda caso, dipendente di un supercriminale supermiliardario), siccome era dispiaciuto perché la sua nazionale era andata male agli europei, è uscito (come facciamo noi donne, quando siamo tristi, che usciamo e ci compriamo un paio di scarpe o un vestito per sentirci un po' meno tristi; e poi però ci vengono tre mesi di sensi di colpa, uno ogni dieci euro spesi) e si è comprato un'intera isola con 500 ettari di terreno, nel centro del lago Malaren, il terzo lago della Svezia. Dice che è terapeutico. Ma quand'è che passa il treno di ritorno? Sono all'incirca vent'anni che aspetto. E poi dicono che non è vero che le Ferrovie non funzionano.

mercoledì 13 giugno 2012

Tre regali per Cassano

Caro Cassano, voglio farti un regalo. Anzi, tre. Leggi queste tre poesie o frammenti (o fattele leggere da qualcuno che sia andato oltre la quinta elementare) e appena hai finito ne parliamo. "Simile in tutto agli dèi mi appare l'uomo che ti siede dinanzi e ti ascolta così da vicino, mentre parli con lieve sussurro e ridi amabile: questa visione mi sconvolge il cuore in petto. Basta che ti getti uno sguardo e mi si spezza la voce, la lingua s'inceppa, subito un fuoco sottile corre sotto la pelle, gli occhi non vedono più, le orecchie rombano, un freddo sudore mi scorre, un tremore tutta mi afferra, sono più verde dell'erba, e poco manca che muoia..." "Avrei davvero voluto morire quando lei mi lasciò in affannoso pianto tra molte cose dicendomi ancora: "Come soffriamo atrocemente, Saffo, io ti lascio contro il mio volere." Ed io a lei rispondevo: "Va' serena e di me serba il ricordo. Sai quanto ti ho amata. Se mai tu lo dimenticassi, sempre io ricorderò i bei momenti che vivemmo. Quando di corone di viole e di rose e di croco, accanto a me ti cingevi il capo gentile, e mettevi intorno al collo ghirlande intrecciate di fiori. E cosparsa di essenze profumate sul morbido letto ti saziavi, né mai vi furono danze nei sacri boschi a cui fossimo assenti..." "Che cosa brama ancora il tuo folle cuore? Chi devo, Saffo, ancora persuadere a darti ricompensa nell'amore? Chi ti fa soffrire? Se adesso fugge, poi ti cercherà; se sdegna i tuoi doni, presto ne farà; se non ti ama, presto ti amerà, anche se non vuole..." Eccomi. Allora. Sai chi le ha scritte queste poesie che hanno fatto innamorare perdutamente (o espresso ciò che sentivamo ma non sapevamo dire) le donne come me che ancora si ostinano ad amare gli uomini, gli uomini che non odiano le donne, le donne delle donne e gli uomini degli uomini? No, che non lo sai, tu sai solo dare calci a un pallone e non ti do della capra solo perché almeno la capra caca e concima. Questi versi li ha scritti (nel VII secolo avanti Cristo) Saffo, che non era un maschio anche se finisce per "o". Saffo era una poetessa greca originaria dell'isola di Lesbo, praticamente il "prototipo" letterario della lesbica, ma tu non hai potuto goderne perché sei un asino (con tutto il rispetto per l'asino, che è un animale sensibile) e tutti i tuoi soldi non basteranno a comprare intelligenza e cultura. Saffo era lesbica, ma non per questo non poteva esprimere il sentimento dell'amore e tutte quelle sensazioni e quei brividi lungo la schiena che, per paradosso, ti fanno sentire vicino alla morte eppure più che mai vivo. E non penso che nessuno ventotto secoli fa si sia mai sognato di pensare che lei non potesse scrivere perché lesbica. Invece tu che sei "normale", ma innaturalmente bestia, pensi che un tuo compagno di partita non possa segnare un goal perché omosessuale. Sai, un calcio a una palla - con un po' di allenamento, molta coca, molti anabolizzanti e fiumi di soldi e scommesse illegali - lo sanno tirare tutti, anche un omosessuale e persino un cretino come te. E' pensare che non tutti sono in grado di fare.

lunedì 11 giugno 2012

Madame la Présidente

Appartengo a quella categoria di donne che dicono la ministra, l'avvocata, la sindaca, la magistrata, eccetera, e godo come una pazza quando - riferendosi a un gruppo di dieci persone fra le quali un solo maschio - qualcuno in maniera sgrammaticata (di una grammatica decisamente maschilista) si rivolge al gruppo con desinenze al femminile. Dunque, non posso che accogliere con entusiasmo la notizia che l'Accademia della Crusca abbia certificato nei fatti la necessità del riconoscimento ufficiale dell'esistenza delle donne nella lingua italiana (e non sarebbe male, però, se accadesse anche nella società italiana), collaborando al Progetto del Comune di Firenze "Genere e linguaggio" che ha tracciato le "Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo" dedicando un capitolo alla scelta di un linguaggio “rispettoso dell’identità di genere”. Ora, però, riservando io alla Crusca la stessa devozione che i cattolici rivolgono al papa (del quale dubito fortemente che la meriti), come al papa vorrei chiedere una particolare dispensa agli Accademici: io non dirò mai la ministra del Lavoro di una che cancella tutti i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici né - nel prossimo settennato - Madame la Présidente. Mi dispiace, ma non ce la faccio. Perché, vedete, io di donne stronze ne ho conosciute (non è che noi siamo immuni), ma se uno è così stronzo non può che essere un maschio.

domenica 10 giugno 2012

Bollicine e puzzette

Bollicine. Non si capisce bene se è la pubblicità di un negozio di abbigliamento per bambini dans le vent - all'ultimissima moda, fresca di giornata come le uova, con i colori della stagione, arancio e turchese, che ovviamente fra tre mesi saranno completamente sbiaditi in un rosa depressione e in un bianco perborato - oppure l'elogio dell'aria fritta. Bollicine. A pensarci bene, potrebbe essere la pubblicità di una confezione di bolle di sapone, che - come è noto a tutti e con grandi pianti dei bambini - non fanno in tempo a sollevarsi che già svaniscono in uno schizzo viscido e saponoso. Bollicine. Oppure potrebbe essere la pubblicità della Coca-cola che già di suo fa buchi nello stomaco (e però da questo punto di vista è meglio dello svitol), se poi la affidi a Vasco li fa pure nel cervello. Bollicine. E se invece fosse la pubblicità delle polveri Idriz? Chissà com'è, però, pure queste non è che durino molto: dimentichi aperta la bottiglia ed è come se bevessi acqua con il bicarbonato. O, peggio, con la magnesia San Pellegrino: che - com'è noto - fa cagare. Insomma le bollicine arancio e turchese all'interno della sagoma della Sicilia sono il colpo di genio (degno di uno studio nemmeno troppo approfondito da parte di Freud) del pubblicitario che ha pensato il logo per la campagna elettorale di Claudio Fava, che - credendosi il deus ex machina della situazione o il salvatore di una patria dalla quale si tiene a debita distanza e forse anche in crisi di astinenza da stipendi parlamentari - ieri ha annunciato urbi et orbi la sua candidatura alla presidenza della regione Sicilia. Unico programma: se stesso (altro che culto della personalità!) Fuori dai partiti, fuori dagli schieramenti, cu c'è c'è, come si dice da queste parti, a prescindere, in preda a un attacco di onanismo sfrenato (del resto, Woody Allen dice che farsi le seghe è il modo per fare l'amore con la persona che si ama più di tutte e lui, l'affabulatore, si ama così tanto che Narciso - appunto - gli fa una pippa) e che gli altri vadano a farsi fottere. Che poi "gli altri" sarebbero i siciliani onesti, i quali magari speravano in una sinistra dignitosa che sulla base di un programma trovasse un candidato unitario e dalla faccia pulita in grado di cancellare dalla loro memoria l'incubo di uno sguardo torvo, delle clientele, della disoccupazione e dei voti mafiosi e invece ora, grazie al suo gioco a spaccare pur di guadagnarsi una telecamera in solitaria, vedono già svanire la speranza di una speranza. Ora che ci penso bene, forse le bollicine sono quelle che si rincorrono per lo stomaco dopo essersi rimpinzati di legumi. Alla fine, resta solo la puzza. Anzi, una puzzetta.

martedì 5 giugno 2012

B, Hulk e l'Italia pulita

Scusate se mi ripeto, ma il discorso è sempre quello: per lui una scopata a pagamento è amore, un mafioso pericolosissimo è un eroe, i giudici sono criminali, gli scilipoti sono persone di giudizio e responsabili, e così via all'infinito. E dunque: di che vi stupite se oggi Silvio Berlusconi, che somiglia sempre di più a Gabriele Paolini e si farebbe arrestare pur di apparire in tv, vuole chiamare il suo nuovo partito "Italia pulita"? La cosa che stupisce è che il vecchio bavoso, che almeno di queste cose dovrebbe essere esperto, non si sia preoccupato - prima di dare mandato ai suoi di registrare il marchio - di verificare se qualcuno avesse il copyright. Ebbene, purtroppo per lui c'è ed è una specie di invincibile Hulk che nessuno si augurerebbe mai di incontrare sul proprio cammino. Il signore in questione si chiama Michele Logiurato, si presenta in tv armato di forcone, dice - come da copione ormai putrido e generalizzato - di essere incazzato con tutti i politici ed è fondatore di un movimento politico e culturale (così qualcuno lo definisce) chiamato appunto Italia Pulita nel cui logo svolazzano farfalline, cuoricini e menate varie. Se ci fate caso, le prime erano i gioielli preferiti da Berlusconi per marchiare le sue amiche dopo averle impollinate (o essersi illuso di averlo fatto), i secondi immaginiamo battessero appassionatamente nel partito dell'amore (in quel caso il termine era sinonimo di sodomia nei confronti dell'opposizione) di cui annunciò la nascita qualche anno fa, le terze ce le ha rifilate à go-go durante tutto il suo ventennio. Ora però c'è un problema, anzi due: il primo è che (per quanto possa importare la mia opinione), siccome lui l'Italia la vuole pulita, io la voglio sporchissima; il secondo è che il signor Logiurato l'ha giurato: "Il marchio è mio. Sono pronto a prenderli a calci nelle palle". Ho come la vaga sensazione che per Hulk calci nelle palle significhi proprio calci nelle palle.

domenica 3 giugno 2012

Istagram e la vita sfocata

Quando da bambine, di domenica, la mamma ci portava a trovare le prozie a Mineo (viaggio interminabile, da Catania, con pacchetto completo chiavi in mano: curve, vomito, respira, canta così non ci pensi), fra i rituali da ripetere meccanicamente c'era il ripasso della storia familiare attraverso le fotografie. Pochissime, perché allora non c'erano cellulari né macchinette digitali, quasi nessuno aveva una macchina fotografica a casa e si chiamava il fotografo per le occasioni importanti. Fra le altre, ce n'era una che faceva particolarmente impressione: era quella di una zia mai conosciuta, morta tredicenne, mai fotografata in vita e immortalata (!) da morta perché se ne conservasse il ricordo. Foto particolarmente macabra, perché si erano dimenticati di chiuderle gli occhi e dovevano aver chiamato uno di quei fotografi da cinema muto con tanto di nuvoletta di fumo che faceva apparire tutto fuori fuoco: abito chiaro da bambina, occhi chiari, capelli chiari, tutto sfocato, sbavato nel grigio chiaro dello sfondo. Quando, molti anni dopo, morì la bisnonna, la foto che scelsero per il cimitero - e per una specie di altarino artigianale allestito in casa davanti al quale farci inginocchiare e farci assistere di spalle (confesso che mi sentivo un po' presa per il culo e trovavo sospetto, se non appunto per rendere reale un gioco di prestigio, che le zie stessero dietro di noi e non accanto) al miracolo della "nonna vecchietta" che ci mandava dall'alto alcune noci, e il miracolo grandioso invece era considerare un regalo qualunque regalo, quindi persino poche noci, e non una Maserati o un paio di tette rifatte -, insomma, anche quella foto in abito nero per gli infiniti lutti non aveva tratti contenuti nei confini dell'abito, di qua il nero di là il grigio, ma anche questa aveva un che di fuori fuoco, di colore che sfocia nel non colore. Poi morì mia nonna: aveva un bell'abito a fiori nella foto del cimitero e il sorriso delle vacanze a Fiuggi, ma anche in quel caso avevano preso quella dai contorni più indefiniti. E allora ti viene il dubbio che scegliessero di proposito quella venuta peggio, con un effetto flou più che mai involontario, ma che serviva a dare il senso di immaterialità della morte, di quello che loro credevano e volevano farci credere di un'anima che esce da un corpo o un corpo che esce da un'anima, tanto da non essere mai del tutto presente e mai del tutto assente. Poi le tecniche migliorarono, in ogni casa ci fu una macchina fotografica, ci fu il trionfo della tecnologia e tutti (quasi tutti) siamo diventati bravi a fare foto "nitide", come si diceva una volta, bene a fuoco, inquadratura discreta. E però - e vengo al punto - da qualche tempo accade un fenomeno strano: da qualche tempo è invalsa la moda di fare le foto (presumo bene: nitide, a fuoco, eccetera) e peggiorarle con Istagram. Io le trovo orribili - forse perché mi ricordano quelle dei morti - e non capisco come fotografi professionisti o dilettanti ma appassionati possano essersi fatti travolgere dall'onda. Che ci sia una spiegazione sociologica o psicologica? Cioè: non capisco se hanno bisogno di fotografarsi in quel modo perché si sentono già morti, se lo fanno perché vogliono provare come ci si sente a vedersi morti oppure se è perché hanno una paura fottuta di cose definite, di nero che sia nero, rosso che sia rosso, idee che siano quelle e non maanche, sentimenti sinceri che abbiano un nome a cui corrisponde un significato. E, in definitiva, se hanno paura della vita.