domenica 3 giugno 2012

Istagram e la vita sfocata

Quando da bambine, di domenica, la mamma ci portava a trovare le prozie a Mineo (viaggio interminabile, da Catania, con pacchetto completo chiavi in mano: curve, vomito, respira, canta così non ci pensi), fra i rituali da ripetere meccanicamente c'era il ripasso della storia familiare attraverso le fotografie. Pochissime, perché allora non c'erano cellulari né macchinette digitali, quasi nessuno aveva una macchina fotografica a casa e si chiamava il fotografo per le occasioni importanti. Fra le altre, ce n'era una che faceva particolarmente impressione: era quella di una zia mai conosciuta, morta tredicenne, mai fotografata in vita e immortalata (!) da morta perché se ne conservasse il ricordo. Foto particolarmente macabra, perché si erano dimenticati di chiuderle gli occhi e dovevano aver chiamato uno di quei fotografi da cinema muto con tanto di nuvoletta di fumo che faceva apparire tutto fuori fuoco: abito chiaro da bambina, occhi chiari, capelli chiari, tutto sfocato, sbavato nel grigio chiaro dello sfondo. Quando, molti anni dopo, morì la bisnonna, la foto che scelsero per il cimitero - e per una specie di altarino artigianale allestito in casa davanti al quale farci inginocchiare e farci assistere di spalle (confesso che mi sentivo un po' presa per il culo e trovavo sospetto, se non appunto per rendere reale un gioco di prestigio, che le zie stessero dietro di noi e non accanto) al miracolo della "nonna vecchietta" che ci mandava dall'alto alcune noci, e il miracolo grandioso invece era considerare un regalo qualunque regalo, quindi persino poche noci, e non una Maserati o un paio di tette rifatte -, insomma, anche quella foto in abito nero per gli infiniti lutti non aveva tratti contenuti nei confini dell'abito, di qua il nero di là il grigio, ma anche questa aveva un che di fuori fuoco, di colore che sfocia nel non colore. Poi morì mia nonna: aveva un bell'abito a fiori nella foto del cimitero e il sorriso delle vacanze a Fiuggi, ma anche in quel caso avevano preso quella dai contorni più indefiniti. E allora ti viene il dubbio che scegliessero di proposito quella venuta peggio, con un effetto flou più che mai involontario, ma che serviva a dare il senso di immaterialità della morte, di quello che loro credevano e volevano farci credere di un'anima che esce da un corpo o un corpo che esce da un'anima, tanto da non essere mai del tutto presente e mai del tutto assente. Poi le tecniche migliorarono, in ogni casa ci fu una macchina fotografica, ci fu il trionfo della tecnologia e tutti (quasi tutti) siamo diventati bravi a fare foto "nitide", come si diceva una volta, bene a fuoco, inquadratura discreta. E però - e vengo al punto - da qualche tempo accade un fenomeno strano: da qualche tempo è invalsa la moda di fare le foto (presumo bene: nitide, a fuoco, eccetera) e peggiorarle con Istagram. Io le trovo orribili - forse perché mi ricordano quelle dei morti - e non capisco come fotografi professionisti o dilettanti ma appassionati possano essersi fatti travolgere dall'onda. Che ci sia una spiegazione sociologica o psicologica? Cioè: non capisco se hanno bisogno di fotografarsi in quel modo perché si sentono già morti, se lo fanno perché vogliono provare come ci si sente a vedersi morti oppure se è perché hanno una paura fottuta di cose definite, di nero che sia nero, rosso che sia rosso, idee che siano quelle e non maanche, sentimenti sinceri che abbiano un nome a cui corrisponde un significato. E, in definitiva, se hanno paura della vita.

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