giovedì 31 dicembre 2015

Presto dammi un bacio


Qualche settimana fa sono entrata in un negozio di cosmetici, letteralmente puntellato da un giovane commesso molto gentile che correva di qua e di là per consigliare a una cliente quale ombretto fosse adatto per lei, a un'altra il fondotinta giusto, a un'altra ancora il mascara antiallergico e poi si precipitava alla cassa per fare pagare qualcuno e ritornava svolazzando mentre il dorso delle sue mani diventava un arcobaleno in cui si rincorrevano strisce di tutte le nuances di rossetto. Intanto lanciava l'occhio intorno e pure dietro la testa per controllare che qualcuno non approfittasse del suo non essere una macchina e non poter fare tutto contemporaneamente. Di assentarsi un attimo per fare pipì neanche a parlarne. A un certo punto gliel'ho detto che non poteva fare tutto da solo e doveva chiedere di farsi affiancare da qualcun altro. Ma pensavo a qualche altro essere umano.
E invece no, perché oggi la stampa giuliva ci comunica l'elettrizzante novità: dal 2016 un esercito di robot invaderà le nostre vite. Cioè, ci spiegano, potranno "aiutarci in ogni aspetto della quotidianità, dalle pulizie alla cucina, fino all'aiutare i figli nei compiti o semplicemente per la compagnia". Non solo: qualcuna di queste macchine - Pepper lo hanno chiamato i giapponesi - sarà in grado di "capire e rispondere alle emozioni umane" e qualche altro potrà fare il commesso. Grazie, no, magari rischio l'accusa di luddismo, ma a me non va giù questa storia dei robot che fanno i commessi, rubando il lavoro ad esseri umani già costretti a lavorare in nero e senza tutele. E poi ve l'immaginate il robot che si striscia sul dorso della sua mano in materiale inerte il rossetto per farvi vedere che effetto fa sulla pelle?
Non ho niente contro le macchine, ma se fanno il loro mestiere di macchine; se - come ci spiegano oggi i giornali - possono portare la spesa fino a casa, cioè sono dei montacarichi, o anche eseguire analisi cliniche su anziani pazienti costretti a casa. Ma poi, comunque, ci vuole il medico, preferibilmente uno bravo in grado di coniugare le questioni sanitarie e quelle psicologiche. Come per cogliere le emozioni e rispondere ci vuole un'amica, un amico, una sorella, un fratello, un amore, queste "cose" qua, insomma, che cose non sono. E per seguire i bambini mentre fanno i compiti, per lodarli se sono bravi oppure guidarli se sono in difficoltà o anche per sgridarli a sangue se sono svogliati, magari sentendosi delle merde allo spuntare di una lacrima ma tenendo il punto, ci vogliono dei genitori - una mamma e un papà, una mamma, un papà, una mamma e una mamma, un papà e un papà -, che magari non saranno perfetti ma sono esseri umani.   
Comunque, tranquilli: stiamo parlando di roba che in pochi potranno permettersi. Costo base 1.600 euro, più una quantità infinita di app che farà lievitare il prezzo. Ai più resteranno le emozioni vere. E, sarà un caso ma, mentre scrivo, alla radio c'è Ron che canta Joe Temerario e invoca un antidoto antico e umano contro la solitudine che nessun robot è in grado di offrire: "Presto dammi un bacio, presto dammi un bacio".


venerdì 11 dicembre 2015

A Natale puoi

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La scena doveva essere questa: il televisore acceso di prima mattina per avere la sensazione di sentire voci umane, le pantofole, le vestaglie, la borsa dell'acqua calda, i loro piedi che strisciavano incerti sul pavimento. Quella voce di sottofondo che lentamente si insinua e ti avvolge come in una bolla. Consigli per gli acquisti, che ti entrano nel cervello, scavano la pietra come la goccia.
Loro devono avere fatto due più due: da un lato la pubblicità del panettone Tre Marie - "un lusso che tutti si possono sempre permettere" - dall'altro quella del pandoro Bauli, il tormentone che ti fa venire voglia di armarti di bazooka: a Natale puoi. Bella idea.
L'ha detto la tv, dunque dev'essere vero che panettone e pandoro sono irrinunciabili, un lusso che tutti possono permettersi. Di più: un lusso a cui nessuno rinuncia. Il resto dev'essere venuto da sé: se a Natale possiamo fare quello che non possiamo fare mai, che dev'essere una specie di adattamento dell'antico "semel in anno" carnevalizio, e se nessuno rinuncia ai dolci tipici dell'orgasmo consumista, allora noi - si saranno detti i due protagonisti della storia - glieli vendiamo e facciamo i soldi. Affare fatto.
Già, e dove li compri i panettoni da rivendere se non hai un capitale di partenza? Semplice: li prendi - diciamo così - "in prestito" al supermercato. Ti metti su un cappotto pesante, sciarpa e berretto per non farsi riconoscere, entri magro ed esci grasso: uno faceva il palo e l'altro si infilava sotto i vestiti uno o due panettoni al massimo. Ma di quelli senza pretese, senza creme e cremine che li rendono più cattivi e più costosi, che oltre a metterti di cesello a togliere i canditi ti serve pure la spatola per asportare quelle specie di maschere all'argilla che ormai sembra vadano tanto di moda. Costo medio 8 euro. Rivenderli non sarà difficile. E' durata una settimana, poi li hanno beccati: in tutto ne avevano rubati dieci, poco più di uno al giorno, fin quando le telecamere di sorveglianza hanno sventato il loro piano e i "malviventi" sono stati denunciati per "furto aggravato in concorso".
Ah, quasi me ne dimenticavo: i due amici non dovevano né pagarsi la dose né passarsi lo sfizio di avere le scarpe da ginnastica firmate. I due amici hanno rispettivamente 85 e 82 anni e una pensione ciascuno al minimo. E dovevano solo sopravvivere. Sì, a Natale puoi: puoi incazzarti come una bestia.  

giovedì 26 novembre 2015

Uno stipendio per la signora Chiosa

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Mi batterò perché il gestore del cinema paghi uno stipendio alla signora Chiosa: Tilla Chiosa.
La signora Postilla Chiosa, Tilla per gli amici, è una donna âgée che va al cinema sempre nello stesso cinema, lo stesso giorno della settimana, alla stessa ora, e si siede allo stesso posto. Arriva conversando con le amiche, si siede senza smettere di conversare, conversa durante i trailer e continua per il primo quarto d'ora del film. Poi attiva il servizio di audiodescrizione per non vedenti.
Che si esplica in due modi, a seconda del film. La prima modalità all'inizio è un po' diesel, ma poi va come un treno. Per capirci, non uno di quelli che circolano in Italia: diciamo un TGV. Il servizio riguarda le pellicole in lingua straniera sottotitolate in italiano. La signora Tilla infatti si accorge che il film è con i sottotitoli dopo circa una ventina di minuti dall'inizio, avendo per un attimo distolto l'attenzione dalla conversazione con le amiche e scoprendo chissà come di essere al cinema. Ma, tolti i venti minuti di black-out totale, poi non perde un colpo. La signora annuncia urbi et orbi che il film non è in italiano e parte con la lettura a voce alta dei sottotitoli. In differita, però: cioè, tu stai già cercando di leggere da te la battuta successiva quando ti arriva il parlato di quella precedente. Alla fine, se non sei un non vedente, rischi la neuro, ma almeno la categoria disagiata ne ha un gran vantaggio e quindi va bene così.
La seconda modalità è quella che definirei del racconto commentativo de noantri: sempre convinta di stare nel salotto di casa sua con le amiche davanti a una tazza di tè e di parlare della vita di un/una conoscente comune, la nostra Tilla si profonde in congetture e finali. Metti ieri per esempio: coppia in crisi dopo una tragedia immensa, "pausa di riflessione", lui disperato ma talmente disperato da essersi fatto (sembra che sia l'antidoto al cuore infranto usato dalla maggior parte dei maschi) una scopata con un'altra, macchina bloccata dalla pioggia, silenzio, imbarazzo, bacio, primo bottone di camicetta che salta via: "Senti", dice lui; "No, no", dice a bassa voce la signora Chiosa; "Ti devo...", dice lui; "No, speriamo che non glielo dice", mormora con un tono di voce appena un po' più alto e supplicante la signora Chiosa; "...dire una cosa", dice lui; "No, no: non glielo dire", si fa imperativa la signora Chiosa. Alla fine lui confessa e fra sala e platea esplode in un urlo - al posto dell'orgasmo che ormai è bello che andato - il disappunto totale della signora Chiosa: "Noooo, non glielo dovevi dire!"
Ecco, stendendo un velo pietoso sull'istigazione alla menzogna, direi che lo stipendio la signora Chiosa se lo merita tutto, per il pathos che mette nello svolgere il suo compito. Direi, anzi, che il gestore dovrebbe assumerla. E subito dopo metterla in cassa integrazione: così prende lo stipendio ma se ne sta a casa. O forse sono io che dovrei smetterla di essere così abitudinaria come una signora âgée e cambiare se non cinema almeno giorno, ora e fila.

lunedì 23 novembre 2015

Inc. Cool. 8 al quadrato


Ah, va bene. Quand'è così, mi vesto decentemente e mi trucco: un velo di fondotinta e il mascara per rendermi presentabile. Hai visto mai.
Dice l'Ansa che ora mi assumono. Cioè non è che dica proprio così, ma è come se: foto con mimosa d'ordinanza in primo piano, mani femminili che scorrono sulla tastiera di un computer e poi il titolone, grazie al quale la "prima agenzia di informazione multimediale in Italia", come la definisce Wikipedia, supera se stessa e raggiunge i livelli della Stefani. Insomma roba che manco l'Unità sfondata da Matteo Renzi. E meno male che l'argomento li ha costretti a non mettere l'immagine di una donna con il "mocio" in una mano e il secchio nell'altra.
Eccolo il titolo: "Istat: occupazione donne torna al top". Minchia! E com'è che finora non me ne sono accorta? Magari sono solo io che non me ne sono accorta, visto che ormai più che cercare lavoro dovrei cercare pensione. Magari per le trentenni e le quarantenni le cose cominciano a girare per il verso giusto.
Il mio difetto però è che vado oltre il titolo: io ho questo brutto vizio, che gli articoli li leggo. E poi vi vorrei denunciare per abuso della credulità popolare, perché voi lo sapete bene che i più leggono soltanto il titolo.
L'attacco dice che "L'occupazione femminile riaggancia i suoi massimi: torna al 50,9%, valore più alto dall'inizio delle serie (avviate nel '93), toccato solo due volte e mai superato. E' quanto emerge da dati Istat sul secondo trimestre 2015 per la fascia fra i 20 e i 64 anni".
E dov'è la fregatura? Eccola, arriva subito dopo, tanto la plebaglia si è già distratta con altri titoli: "Ma il rialzo è pressoché esclusivamente dovuto alle over-54, su cui ha influito la riforma delle pensioni". Quindi, come direbbe Maurizio Crozza, è un' "Inc. Cool. 8". Al quadrato però: perché non solo non è vero che aumenta il numero delle occupate ma per di più quelle che hanno lavorato una vita e vorrebbero finalmente ritirarsi (magari lasciando il posto a chi ha ancora voglia ed energia) non possono farlo grazie alla legge della madonna piangente Elsa Fornero. Ed è solo grazie a queste, costrette al lavoro come se fosse un ergastolo, se il tasso non si schianta.
Infatti, continuando a leggere, si scopre che in tutto si tratta di poco più del 50% di donne occupate, che è all'incirca la stessa cifra di vent'anni fa, che la percentuale è ben lontana dai "target europei" fissati per il 2020 e da quella attuale degli uomini italiani occupati (oltre il 70%), che le giovani donne - quelle "nella fascia d'età tra i 25 e i 34 anni" - invece che trovarlo il lavoro lo perdono. Però secondo la Stefani, pardon, secondo l'Ansa, "si può dire che si è messa una toppa alla crisi che aveva fermato la crescita dell'occupazione femminile". Come quella che avete messo voi scrivendo cose più o meno corrette sotto un titolo truffaldino.
Matteo Renzi ringrazia. Io intanto mi vado a struccare: la recita è finita.

mercoledì 18 novembre 2015

Sotto un treno

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Vorrei richiamare la vostra attenzione su un caso umano ingiustamente oscurato dai media per la concomitanza con il massacro di Parigi: è quello di un uomo che a 57 anni ha perduto il lavoro e che oggi dice di sé di essere "troppo giovane per andare in pensione", di sentirsi "sotto un treno" e che adesso deve soltanto preoccuparsi "di come tirare avanti". Qualche suo amico giura che "si ritroverà sul lastrico".
Da coetanea (e pure collega) che conosce bene, sia per esperienza diretta che per testimonianza di ultracinquantenni, ma anche di trentenni e quarantenni nelle stesse condizioni, vorrei rincuorarlo un po', perché lui dice di saper fare solo il mestiere che ha sempre fatto ed è scoraggiato.
Quindi gli farò un po' il quadro della situazione in cui si trova un o una professionista che perde il lavoro. Ma non voglio creargli illusioni e quindi gli dirò francamente che intanto chi viene licenziato deve rinunciare a trovare un lavoro come quello che faceva e che gli piaceva; quindi comincerà a cercare qualcosa che somigli al lavoro che faceva, poi si proporrà come segretario o vicesegretario o centralinista (ovviamente in nero) in uno studio professionale, andando avanti nel tempo si farà avanti come autista, baby-sitter, gattaro e scenderà sempre di più i gradini della scala sociale; avendo a disposizione molti giornali, potrà addirittura farsi un cappello di carta e improvvisarsi imbianchino. Di buono, rispetto a una donna, c'è che forse non rischierà che un potenziale datore di lavoro lo faccia girare per controllare che abbia il culo abbastanza sodo per eventuale palpeggiamento o gli chieda quant'è lungo il suo pisello. Comunque nient'altro che lavoretti qua e là, poche ore, niente contributi; c'è chi alla fine ha risolto suicidandosi.
Il punto però è che, rispetto a tutti gli altri anonimi trentenni, quarantenni, cinquantenni e ultracinquantenni licenziati, questo signore si chiama Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1 fedelissimo di culoflaccido al punto da essere soprannominato "Minzolingua", poi senatore di Forza Italia, condannato perché avrebbe usato la carta di credito della Rai per le sue spesucce personali (appena sessantacinquemila euro), e a causa di questa condanna espulso dal Senato in base alla legge Severino.
Vede senatore, ci sono due cose che ci distinguono e che mi rendono orgogliosa di essere diversa - io e molti colleghi di "cinquantennitudine" troppo vecchi per lavorare troppo giovani per andare in pensione - da lei: io non ho rubato nell'azienda in cui lavoravo e non so leccare il culo. Quindi in questa Italia alla rovescia io e i miei colleghi di "cinquantennitudine" non lo troveremo più un lavoro, lei invece sì e ben remunerato. Perciò almeno la smetta di fare la vittima offendendo chi davvero non ha prospettive.
Ah, e comunque se volesse suicidarsi, sappia che non la rimpiangeremo.


sabato 14 novembre 2015

Guerra


Se avessi soldi prenderei un aereo per Parigi in questo stesso momento. No, mamma, tranquilla, in questo momento non è pericoloso andare a Parigi: perché è già successo tutto e perché in questo momento è pericoloso in qualunque posto persino starsene chiusi dentro casa.
Stanotte mi ronzava sulla testa un aereo militare, hanno un rumore particolare gli aerei militari, e da queste parti ci abbiamo fatto quasi l'abitudine, noi che siamo colonia dell'impero e da qui facciamo guerra al mondo intero. Io no, io non ci ho fatto l'abitudine: io ho paura persino dei film sulla guerra e ho paura ogni volta che li sento passare quegli uccellacci neri, resto in apnea per tutto il tempo in cui volteggiano qui su, tendo l'orecchio ad accompagnarli mentre si allontanano, resto vigile per essere sicura che non ritornino. Vigile e impotente di fronte a una guerra senza data di inizio e di fine, senza territori delimitati, come un fiume che scorre sotterraneo e all'improvviso esplode travolgendo tutto. Non so quando succederà di nuovo e dove succederà.
So solo che succederà. E ancora una volta ci rimetteremo a pensare al nipote, all'amico di tuo figlio, al cugino, ai tanti ragazzi che da qui se ne sono andati per cercare il futuro o anche soltanto per respirare il fascino di quella città; e penseremo all'ospite di tre giorni di cui non ricordi più nemmeno il nome ma di cui ti chiedi se si è salvato.
Vorrei andare a cercarli tutti, mannaggia ai soldi. Se avessi soldi partirei subito per Parigi e mi metterei a girare per le strade, per abbracciarli tutti uno ad uno quelli che sono rimasti, e ad ognuno chiedere se conoscono il tizio o la tizia che ho conosciuto una volta per due o tre giorni qui nella mia città. Chissà dove sono adesso. Ne sono passati tanti da qui, da questa città dove la gente vive come se non sapesse che di notte nei suoi cieli si fa la guerra. Loro qui ci sono venuti per turismo, soprattutto coppie giovani: francesi sciovinisti che non dicevano una parola di italiano, francesi che credevano di dire qualche parola in italiano e invece la dicevano in spagnolo, spagnoli che vivevano in Francia, una ragazza nera e un ragazzo bianco bellissimi, australiani trapiantati a Parigi. Dove sono adesso?
Vorrei andare a bussare ad ogni porta, infilarmi in ogni vicolo, citofonare a casaccio. E abbracciarli, abbracciarli tutti forte quelli che incontro, talmente forte da non riuscire a respirare: così potrei pensare che a farmi male e a scricchiolare siano soltanto le mie ossa e non il pensiero che in qualunque posto e in qualunque luogo può succedere a una persona a cui vuoi bene e tu non ci sei a tenerle la mano.

venerdì 13 novembre 2015

Vendita delle indulgenze

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Ho appena scoperto che oggi è la giornata della gentilezza, una delle tante ricorrenze nate - forse - con le migliori intenzioni, a tutela di una specie in via di estinzione, ma presto fagocitate dal capitalismo che ne ha fatto un business: pare che fiocchino magliette e gadgets. Insomma, una di quelle cose ipocrite tipo festa degli innamorati, dei nonni, del papà o del gatto che un giorno l'anno servono ad assolvere gli altri 364 giorni di indifferenza e a volte di violenza. Basta spendere soldi in inutili cazzate, tipo vendita delle indulgenze, e il gioco è fatto.
Bene, io - anche se dico le parolacce - sono solitamente gentile: mi sposto per fare passare un'altra persona, dico grazie e prego e per piacere, mi faccio carico dei problemi degli altri, sono talmente gentile che se qualcuno mi dà una gomitata involontaria sono io a chiedere scusa per essermi trovata sulla traiettoria del suo gomito.
Dunque io, che sono solitamente gentile, oggi voglio trovare un modo per onorare questa giornata e dire gentilmente quello che penso a certe persone.
Ne prenderò alcune a campione e proverò a rivolgermi a loro con cortesia. Per esempio i cardinali che fanno la bella vita con i soldi destinati ai bambini poveri; per esempio Matteo Renzi che difende il poco gentile De Luca; per esempio i mafiosi che vogliono uccidere Di Matteo; per esempio coloro secondo i quali una donna che ha subìto per oltre vent'anni i maltrattamenti del marito non ha diritto al riconoscimento della colpa di lui nella causa di separazione (è evidente: le piaceva); per esempio chi ha dato l'ordine oggi a Milano di manganellare un professore cinquantenne disarmato e a volto scoperto che protestava contro la pessima scuola di questo governo; per esempio gli evasori fiscali; per esempio quelli che posteggiano il suv sugli scivoli per i disabili; per esempio i padroni che licenziano una dipendente incinta; per esempio quelli che sfruttano i lavoratori pagandoli poche centinaia di euro al mese (quando va bene).
E potrei continuare. Ma adesso devo trovare qualcosa di gentile da dire loro.
Dunque, vediamo... Ah, sì, ecco: gentilmente, per piacere, se non vi è di troppo disturbo, potreste andare a farvi fottere?

sabato 31 ottobre 2015

Inattivismo


Un giorno non troppo lontano probabilmente Paola diventerà una "inattiva" e ci racconteranno che in Italia c'è una disoccupata in meno. E' l'andazzo della propaganda di regime: le parole che acquisiscono un significato opposto a quello originario; la stampa - quasi tutta - che si fa strumento di un gigantesco inganno.
Ieri ci hanno detto con troni trionfalistici, come si conviene a una dittatura, che la disoccupazione è in calo. Titolo "sparato". Poi è venuto il resto: aumentano gli inattivi. Ma già l'attenzione del lettore/spettatore medio era altrove e quasi nessuno si è accorto che gli inattivi non sono un'altra categoria di lavoratori né tanto meno seguaci del dandismo, ma gente che non ci crede più.
Fino a qualche anno succedeva dopo una certa età e un certo numero di porte in faccia: ogni anno che si aggiungeva a quello in cui ti avevano detto che per quel posto di lavoro c'era un limite di età, significava un anno in meno di speranza. Finché la speranza non è diventata sottile come un foglio di carta velina e si è strappata al primo soffio di vento. I ragazzi di oggi sono precoci anche in questo: ci arrivano molto prima di noi a capire che è finita.
E Paola, che ha soltanto 28 anni, forse l'ha già capito. Altrimenti non avrebbe deciso di raccontare la sua storia a Facebook, quindi praticamente al mondo, come chi sa di non avere più nulla da perdere. O da trovare.
La sua storia è uguale a quella di tante donne che si sono presentate a un colloquio di lavoro: il padrone che fin dal primo momento ti manca di rispetto arrivando in ritardo e dandoti del tu - avendo già deciso di farti sua schiava -, a dispetto della tua professionalità e del numero di lingue parlate fluentemente, poi le domande sulla vita privata: marito, figli. Ma saranno cazzi suoi? E lei questo ha chiesto, ma molto più educatamente. Aggiungendo che si trattava di informazioni riservate che avrebbe preferito non dare e sentendosi dire che il colloquio era terminato, con tanto di questionario strappato platealmente in faccia. Lei ha reagito, ha chiesto se anche ai maschi viene fatta la stessa domanda, e ovviamente no, ha chiesto al tipo se gli interessasse conoscere le sue competenze, e ovviamente no. Probabilmente l'unica cosa che interessava al "dottor M. M." - come lo chiama Paola - era la carne fresca e l'aveva chiamata curandosi solo di controllare nel curriculum l'età e quasi certamente la foto, in attesa di verificare prima di ogni altra cosa la sua potenziale "disponibilità". Non a lavorare indefessamente (si sa che le donne lo fanno), ma forse a farsi dare una bottarella.
E' possibile che Paola, quando ha deciso di raccontare su Facebook la sua storia poi finita sui giornali, abbia fatto un po' di conti e abbia valutato il rischio di renderla pubblica. Chi se la prende una che rivendica i propri diritti? E poi: "max 28 anni". E' già tempo di dedicarsi all'inattivismo.

lunedì 19 ottobre 2015

Cicero pro tele sua


Ai miei tempi il "bollo" tecnicamente si chiamava tassa di circolazione. Poi cominciarono a proliferare gli italici furbi che sostenevano di non usare la macchina e di tenerla sempre parcheggiata, messa lì, proprio sotto casa, fissata al suolo come fosse una fioriera: l'auto immobile. Sicché a un certo punto, per farla pagare a tutti (non prevedendo l'evasione di necessità di questi anni di crisi, più forte della paura di essere beccati), le cambiarono nome: tassa di possesso. Insomma: hai l'auto, paghi il bollo. Poi quello che ci fai, se la usi per pomiciare o per fare le rapine, sono fatti tuoi. Un'auto, un bollo; due auto, due bolli. E così via. Non solo: più è grande e più paghi. Principio elementare di equità fiscale, direi. Ma a quei tempi il brufoloso che vuole togliere la tassa sulla prima villa forse non era neanche nato e siccome non è neppure tanto intelligente non può capire. Oltretutto, lo pagano per fingere di non capire.
Mettiamo la storia del canone Rai che lui vuole fare pagare in bolletta a tutti nella stessa misura: a chi ha un solo televisore in soggiorno e a chi ne ha uno per ogni stanza, a chi ne ha uno gigantesco nella prima villa nella villa al mare nella villa in campagna e persino nello yacht, a chi lo tiene acceso tutto il giorno e a chi lo accende il minimo indispensabile.
Ecco, prendete me, per esempio. Non vorrei essere accusata di fare Cicero pro tele sua o, peggio, del reato di interesse privato in atti di blog, ma io perché devo pagare quanto quello che accende la tv all'alba e la spegne alle due di notte, oppure di uno che ha tanti televisori che nemmeno in un negozio di elettrodomestici? Io l'accendo all'una e mezza per vedere il tg dell'ora di pranzo e spengo; la riaccendo alle otto di sera per vedere il tg dell'ora di cena, guardo qualcosa e, qualunque cosa sia, esattamente due ore dopo mi spengo; e un secondo prima lo spengo. E perché io, che ho un televisore di dimensioni normali, dovrei pagare quanto uno che ha un televisore a tutta parete che manco al cinema? Soprattutto: perché io e i milioni di io disoccupati, pensionati, sottopagati, pagati in nero, poveri insomma, dovremmo pagare quanto lo stronzo con il villone e lo yacht comprati evadendo le tasse?

Il brufoloso dice che abbassare le tasse non è di destra né di sinistra, ma è "giusto". Pagare il canone in base al reddito sarebbe giusto. E pagarlo in base al consumo sarebbe un modo, per esempio, per spingere la gente a fare altro, andare al cinema, leggere un libro, andare a teatro. Certo, questo per voi comporterebbe il rischio di non essere votati. Non è forse per instupidire gli italiani e raccogliere il loro consenso che Berlusconi ha inventato la tv? Ma, già, tanto Renzi è andato oltre B. per arrivare ad M. e ormai in Italia non si vota più. "A coloro che pretenderebbero di fermarci con carte o parole, noi risponderemo col motto eroico delle prime squadre d'azione ed andremo contro chiunque, di qualsiasi colore, tentasse di traversarci la strada". *

 

* Dal discorso di Mussolini ad Eboli, il 6 luglio 1935, passando in rassegna quattro battaglioni di camicie nere. Confrontare con: "Dialogo? Non ci faremo fermare da nessuno". Matteo Renzi a Palazzo Chigi il 6 agosto 2015 passando in rassegna numerosi battaglioni di giornalisti della Stefani.


giovedì 8 ottobre 2015

Il messaggio nella bottiglia

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"Una donna che denuncia per stalking viene spesso tacitamente considerata la vera responsabile delle persecuzioni che subisce. Quando chi ha il dovere di portare avanti seriamente le indagini capirà che non è così forse le cose cambieranno, ma ci credo poco".
Uno dei tanti messaggi, si dirà (comunque mai abbastanza per attirare l'attenzione su una mattanza senza fine), pubblicati ieri su Facebook da molte donne e anche da qualche uomo dopo la notizia dell'uccisione di Giordana Di Stefano, una ragazzina di vent'anni, una mamma bambina, scannata come un animale al macello dal suo ex, animale rabbioso che non voleva mollare la sua preda. Un messaggio - si dirà - di analisi della situazione, scritto in maniera asettica e razionale; un messaggio di denuncia, politico, distaccato come (forse) si conviene a un discorso che dovrebbe toccare tutti e che riorganizza in pensiero il raccapriccio universale. Ma c'è una frase, l'ultima, che non ho ancora riportato, che di quelle considerazioni generali fa un messaggio nella bottiglia: "E parlo per esperienza personale".
Quel messaggio nella bottiglia lo ha lanciato nel grande mare aperto di Facebook una mia amica. Anche lei, come Giordana, da tempo vive in quello stato di strangolamento dovuto a telefonate, messaggi, pedinamenti, minacce, quello che un'altra donna vittima di violenza ha definito di "pre-morte", lo stalking che diventa morte civile quando ci aggiungi l'ostilità della famiglia e la sottovalutazione - se non la derisione - di inquirenti, avvocati e presunti esperti.
Io non so cosa fare per la mia amica. Le ho consigliato di andare al Centro antiviolenza e la incito continuamente a non mollare, ma di più non so fare, non posso fare, se non farmi carico della sua angoscia come se fosse mia.
Altri dovrebbero fare, ma non fanno. I giornalisti, per esempio, che dovrebbero smetterla di parlare di omicidio come hanno fatto anche in questa occasione, e soprattutto chi fa e chi applica (o non applica) le leggi. Non sono andata e non andrò sulla pagina Facebook di Giordana, non mi piace farlo, mi ricorda il voyerismo morboso di quelli che intasano l'autostrada dopo un incidente o di quelli che si imbucano ai funerali violentando il dolore altrui, ma so che in questi casi giornalisticamente è doveroso farlo. E infatti molti giornalisti lo hanno fatto, riportando le parole di Giordana: delusione, disillusione, accuse, richieste di aiuto. Giordana il suo messaggio nella bottiglia lo aveva lanciato ripetutamente in diversi post, ma i giornalisti - anche quelli animati dalle migliori intenzioni - non hanno potuto far altro che riferire quelle parole quando non c'era più niente da fare. Da quei messaggi e dalle interviste successive al femminicidio si deduce che la giustizia andava a passo di lumaca e che gli amici non avevano capito la portata della tragedia.
Oggi sentiamo che l'assassino, in lacrime, parla di raptus, dice che non voleva ucciderla e che aveva paura che lei gli portasse via la bimba. Eh, no, basta: non c'è raptus perché altrimenti non saresti tornato a casa a salutare tua madre e a cambiarti prima di partire per luoghi lontani; se non volevi ucciderla non ti portavi dietro un coltello; della tua bambina non te ne importa niente altrimenti non le avresti tolto in un colpo solo la madre e il padre.
Non andrò nemmeno a guardare il profilo del maschio femminicida, perché non voglio rischiare di leggere messaggi di vicinanza a lui e di comprensione nei suoi confronti che aumenterebbero la mia rabbia e il mio senso di impotenza. Quello che posso fare è condividere il messaggio nella bottiglia della mia amica, come ciascuna delle amiche di Giordana avrebbe dovuto fare con i suoi messaggi e come ciascuno è ancora in tempo a fare con i messaggi nella bottiglia delle amiche perseguitate dai loro ex. Prendeteli tutti questi messaggi che sembrano frasi buttate lì a caso, metteteli ciascuno in una bottiglia e lanciateli nel mare dei social, trascriveteli e portateli in caserma, in tribunale, in questura, fateli girare più che potete. Sono queste le cose che dovremmo fare diventare virali.
"Una donna che denuncia per stalking viene spesso tacitamente considerata la vera responsabile delle persecuzioni che subisce. Quando chi ha il dovere di portare avanti seriamente le indagini capirà che non è così forse le cose cambieranno, ma ci credo poco. E parlo per esperienza personale".

lunedì 5 ottobre 2015

La Sicilia in mongolfiera


Mio figlio ha cominciato a parlare in dialetto siciliano quando, ormai molti anni fa, si è trasferito a Roma per fare l'università. Credo che fosse il suo modo per non creare una frattura fra sé e la sua terra. Dall'Italia è passato in Spagna, ha imparato a parlare fluentemente altre lingue, ma la Sicilia e il siciliano erano sempre lì, nella sua testa, nelle cose che leggeva, nei lavori che faceva: lui ci infilava sempre la sua isola.  
Finché è tornato: determinato ad investire soldi, tempo, intelligenza e competenze. Lo ha fatto, ha lottato come un leone, lavorando dodici ore al giorno, facendosi imprenditore di se stesso; ha puntellato questa terra con le sue stesse braccia, ha dimostrato che se una cosa la vuoi, la puoi ottenere tenendo dritta la barra senza cercare vie traverse. Ma non è bastato. Mio figlio - metafora dei nostri figli educati all'onestà - non è bastato. A un certo punto è crollato tutto: l'idea di trovare interlocutori, la speranza di contribuire a cambiare la mentalità, la voglia (e l'illusione) di vedere rifiorire la sua regione e la sua città; poi è crollata l'autostrada Palermo-Catania, spezzando in due la Sicilia, con quello che ha significato in termini di danni alla produttività. E in quel momento la frattura fra lui e la sua terra, che aveva sempre cercato di evitare, è diventata insanabile.
Poi dicono che i ragazzi "scappano". Non scappano, non hanno niente di cui vergognarsi e da cui scappare questi ragazzi e questi giovani uomini: dovrebbero scappare e nascondersi per la vergogna quelli che li costringono ancora, come cento e più anni fa, ad andare a cercare fortuna fuori. Dovrebbero vergognarsi quelli che quando costruiscono mettono uno strato in meno di cemento per farci uscire i soldi della mazzetta, quelli che fanno i concorsi pilotati, quelli che si riempiono la bocca di lotta alla mafia e all'illegalità e poi nei loro partiti accolgono e candidano i boss con tutti parenti, stretti e acquisiti, portatori di pacchetti di voti che puzzano di merda.
Oggi la Sicilia non è più divisa in due: oggi è divisa in tre, praticamente più che un'isola ormai è un arcipelago, perché una frana ha interrotto l'autostrada Catania-Messina. Nella notte è venuto giù un pezzo di costone e non è fantascienza ipotizzare che le piogge dei giorni scorsi abbiano dato il colpo di grazia a un territorio indebolito da decenni di distruzione della natura per favorire la cementificazione selvaggia. Quando ci fu il crollo del pilone della Palermo-Catania i geologi dissero che da tempo segnalavano la situazione; oggi i tecnici del Consorzio autostrade siciliane, competenti per la Catania-Messina, dicono che stanno monitorando da tempo la situazione. E allora, scusate la domanda, ma perché cazzo non siete intervenuti prima, nell'uno e nell'altro caso, senza aspettare che la situazione diventasse irreversibile e che la gente fosse costretta ormai a spostarsi soltanto in mongolfiera, sperando che un colpo di vento ci porti via, il più lontano possibile?
Mio figlio è incazzato nero, dice che dovrebbero smettere di chiederci di pagare le tasse per almeno dieci anni, finché non hanno sistemato tutto. Io non penso che dieci anni bastino. Lui è incazzato perché per il suo lavoro deve spostarsi da un capo all'altro dell'Isola ed è incazzato perché un pezzo di trasloco aveva pensato di farlo con la macchina.
Ah, già, dimenticavo di dirvelo: per colpa vostra - per colpa dei mafiosi, dei corrotti, dei governanti inetti e di chi li vota - mio figlio fra qualche mese andrà di nuovo via dalla Sicilia, andrà al Nord, e questa volta non tornerà forse nemmeno per le feste comandate e forse dimenticherà anche il nostro dialetto. Lui ci aveva provato (con quegli altri giovani di cui è metafora) a tenere in piedi questa terra, ma mancavano le fondamenta. E non venite a parlarmi di turismo e di Ponte sullo Stretto, per piacere.

giovedì 1 ottobre 2015

L'università porca

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Sono migliaia. Migliaia, capite? Altro che numero chiuso, test d'ingresso a Medicina, estate passata a studiare nella speranza di essere presi. Migliaia che si sono fatti il culo pur sapendo che ad essere scelti sarebbero stati soltanto in quindici. Migliaia trepidanti dietro una porta in attesa del risultato. Migliaia con irriducibile spinta motivazionale.
E per accedere a quale prestigiosissimo corso accademico? Ma a quello di Rocco Siffredi, naturalmente. Praticamente un corso di minchia. Come i tanti, del resto, che fioriscono negli atenei italiani pur di assicurare una cattedra ai figli dei baroni.
Questo si chiama Siffredi Hard Academy (emmecojoni), volendo tradurre approssimativamente "l'università porca": un corso (privato) di due settimane - praticamente una sveltina - per insegnare a ragazze e ragazzi come si fa l'attore porno, preceduto dallo slogan "i talenti vanno formati" e pubblicizzato con un video di una trentina di secondi in cui i maschi stanno seduti in cerchio con le gambe incrociate e sono vestitissimi in jeans e maglietta, mentre le ragazze - come da tradizione berlusconiana - sono al centro in abbigliamento da zoccole e gambe rigorosamente divaricate o a culo a ponte, giusto per farci intendere che nessuna delle sessantaquattro posizioni verrà trascurata.
Che poi, se ci pensate, non è tutta colpa di Siffredi. E' che il settore tira. Basta guardare i dati forniti da Pornhub, secondo cui gli italiani rientrano fra le prime dieci popolazioni che usufruiscono dei suoi servizi e servizietti.
La ricerca del sito di video pornografici svela anche che gli italiani cliccano meno la domenica (salvo poi scatenarsi il lunedì), si astengono ad agosto e "prendono una rispettosa pausa" il giorno di natale. La famiglia tradizionale prima di tutto. Preferibilmente accompagnata da indignazione per l'esistenza dei gay e per l'educazione di genere nelle scuole. Così il teatrino è perfetto. Roba da (porno)attori e da politici consumati. Tipo quello del Pd, quel tale Nicola Cucinotta che proclama senza vergogna "meglio omofobo che sodomita". Ragazzi, d'ora in poi se volete sfondare nella vita pubblica non iscrivetevi a Scienze politiche: andate all'università porca. Magari vi ritrovate consiglieri comunali o persino presidenti di regione.

sabato 26 settembre 2015

Faida libraria

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Su Facebook la faida è un evergreen: quelli che difendono miss Italia contro quelli che la deridono; quelli che la pasta con le vongole la vogliono rossa e quelli che la preferiscono bianca; fascisti contro comunisti; comunisti contro comunisti (e in questo caso parlerei di salto di qualità, dall'evergreen al fiore che non marcisce). Stavolta è il turno dei libri e, come sempre capita in questi casi, i clan rivali si fronteggiano a colpi di pubblicazioni più o meno scientifiche.
Lancia in resta, sono partiti i librai e i lettori tradizionalisti. Che da qualche giorno, con grande soddisfazione, fanno girare alcuni articoli di giornale in base ai quali negli ultimi mesi sarebbero crollate notevolmente le vendite di ebook e sarebbero tornate di moda le librerie indipendenti. Clap, clap, clap. Cartaceo batte elettronico tre a zero.
Bello, certo. Se non fosse che gli articoli si riferiscono agli Stati Uniti, dove a quanto pare - per scelta degli editori, che hanno deciso di fronteggiare così Amazon - il libro di carta è più economico dell'ebook. E come se non fosse che in Italia la gente non compra i libri di carta non perché preferisca quelli elettronici ma, molto più banalmente e drammaticamente, perché non legge. Mi sono andata a riguardare i dati dell'Istat sul 2014: su 100 italiani in grado di leggere soltanto 41,4 sono "lettori". Termine con il quale, peraltro, si indicano quelli che hanno letto "almeno un libro nel corso dell'anno". Cioè tu prendi un libro di 365 pagine, quanti sono i giorni dell'anno - tanto per dare un termine di paragone, Cent'anni di solitudine -, e ne leggi una pagina al giorno e ti considerano lettore? Cioè dedichi alla lettura mediamente due o al massimo tre minuti al giorno e ti considerano lettore? E che ne diresti di suicidarti nel tempo che ti rimane?
Non vorrei fare la guastafeste, ma se fossi un libraio italiano non festeggerei una notizia che in Italia non c'è e non me la prenderei con gli ebook, ma forse - che ne dite? - con politiche che non incentivano la lettura. Perché poi il problema è che molti di quelli che vorrebbero farlo, in Italia, non leggono perché è un lusso per pochi intimi. E alcuni ripiegano sull'elettronico che, oltre ad avere il merito di farti sfangare le ore in aeroporto senza caricarti come un somaro, spesso è l'unica soluzione per gli squattrinati, e dunque è il benvenuto. Fatevelo dire da me che sono double-face, kindle in soggiorno e libro di carta sul comodino, pur amando appassionatamente il secondo (e infatti me lo porto a letto, mi piace toccarlo, mi fa impazzire il suo odore). Ho un paio di persone che mi dimostrano il loro affetto regalandomi libri di carta, ma senza il libro elettronico io sarei un pezzo di quel 41,4% e non potrei mai aspirare a far parte della categoria dei "lettori forti", cioè quel 14,3% che legge in media un libro al mese (e qui si arrotonda per molto difetto).
Per quanto mi riguarda metterei da parte queste stucchevoli faide e farei qualunque cosa pur di indurre gli italiani a leggere. Persino mettermi a quattro zampe sulle strade delle città per trascrivere in bella grafia e con il pennarello indelebile intere pagine di romanzi. Magari così comincerebbero pure ad andare a piedi.

P.S.: Siccome so che ora mi si ricorderà che Amazon sfrutta i lavoratori, io potrei fare notare che quando comprate libri Mondadori state dando soldi a quello che corruppe i giudici per comprarsela. E saremmo alla faida fra lettori. No, grazie: ho smesso di fare politica perché non ne potevo più di guerre fra comunisti e comunisti, ma non ho intenzione di smettere di leggere perché qualcuno pensa di avere il libro più lungo.

mercoledì 16 settembre 2015

Vincent il furbastro

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Alcuni decenni fa, traducendo dall'inglese corposi volumi scientifici per una tesi di laurea, cercavo sul vocabolario persino le parole di cui ero assolutamente certa, leggendo la "voce" fino alla fine, per avere conferma che il termine a cui avevo pensato rendesse effettivamente la nuance di significato. Eppure io non ero una traduttrice professionista, quello non era un testo da dare alle stampe e sono certa che il laureando non mi avrebbe fatto causa per un vocabolo non preciso: anche perché era mio marito e sapeva che gli stavo facendo un favore. Ma io sono fatta così: geneticamente rompicoglioni, con me stessa prima che con gli altri. Dunque, m'incazzo: con me stessa quando faccio una cazzata, ma anche con gli altri. Soprattutto se ho la sensazione di essere stata presa per il culo.
E infatti da un paio di giorni sono incazzata. Perché ho buttato tre euro e diciassette centesimi per comprare la traduzione farlocca di un saggio sui metodi usati dai venditori, di merci come di candidati alle elezioni, per convincerci a comprare qualunque merdata. Testo che fa riferimento agli anni Cinquanta ("Persuasori occulti" di Vince Packard) ma ancora attuale, tradotto da un tal Aldo Vincent e pubblicato in ebook, forse - deduco leggendo la sua biografia soltanto dopo aver accolto la sòla nel mio kindle - per vendicarsi di tutti quelli da cui lamenta di non essere stato pagato e soprattutto per fare soldi gratis.
Riporto una delle tanti frasi farneticanti e sgrammaticate, che sembrano scritte da un astemio dopo essersi scolato un'intera bottiglia di cognac: "Quando l'azienda è andato a portare questa altra bottiglia in prova sui mercati, è stata schiacciante la respinta a favore della vecchia bottiglia, anche da parte di persone che avevano favorito il cambio in interviste". Sembra una traduzione fatta da un bambino che sta appena cominciando a studiare l'inglese e a cui viene dato in mano un vocabolario dicendogli di cercare il significato delle parole una per una. E non è nemmeno una delle peggiori: c'è anche il caso di "looking for" tradotto con "cercare per", che almeno ha il merito di evocare l'immagine di una delle posizioni più contorte del kamasutra, un intreccio di quelli che scatenano la fantasia o, a scelta, i ricordi.
Da perdente quale sono, vorrei dire un paio di parole al signor Vincent, vincente in quanto furbastro: può accadere che uno non sia molto preparato in una materia, che abbia difficoltà ad apprendere o a memorizzare, che per quanti sforzi faccia alcune cose non riesca proprio a capirle; quello che non può accadere è la disonestà. Nella vita bisogna essere onesti. Sarebbe bastato che tu dicessi: "Mastico poco l'inglese, però a naso ho capito che questo testo dicesse cose interessanti e allora ho pensato di metterlo a disposizione di tutti traducendolo sommariamente e alla meno peggio con l'aiuto di Google translate perché penso che possa servire alla collettività. Però, siccome so di non avere fatto un testo letterario, non vi chiedo neanche un centesimo". Perché, altrimenti, è truffa e forse persino esercizio abusivo della professione di traduttore. Oppure è che hai assimilato benissimo i dettami del saggio di Packard e quella che non ha capito un cazzo della vita sono io.

P.S.: Sì, lo so, non c'è bisogno di infierire: la seconda che ho detto.

giovedì 3 settembre 2015

Aylan il ranocchietto


Aylan si è addormentato a pancia in giù come un ranocchietto. Per lui niente asilo, come ha scritto Il Manifesto con struggente gioco di parole: né quello cui ambiscono i fuggiaschi da guerre e dittature né quello dove vanno i bambini molto piccoli. Era lì che avrebbe dovuto andare Aylan, il posto naturale, l'asilo, dove si gioca con gli altri bimbi, si mangia la minestrina facendo a metà con il bavaglino, si litiga per un giocattolo, si piange, si fa pace e ci si abbraccia, ci si impiastriccia le manine con i colori e ci si trasforma in un clown maldestro ogni volta che una di quelle manine tocca la faccia nel tentativo di pulirti e invece diventi un quadro astratto, si piange quando mamma e papà ti consegnano alle maestre perché non ti vuoi staccare, si piange quando vengono a riprenderti perché non vuoi smettere di giocare.
Aylan si è addormentato a pancia in giù come un ranocchietto e non ha fatto in tempo ad andare all'asilo. E nemmeno alle elementari, alle scuole medie, alle superiori, non ha fatto in tempo ad andare all'università, ad innamorarsi, a lasciarsi, a trovare un lavoro, a fare economia per pagare una casa.
Aylan si è addormentato a pancia in giù come un ranocchietto, come un bimbo appena nato posato sulla pancia della mamma. Forse è per questo che quest'immagine ha superato il limite del dolore: proprio perché sembra quella di un bimbo addormentato sulla pancia della mamma che lo ninna, gli parla, lo accarezza, gli trasmette il proprio corpo e le proprie emozioni come tante volte abbiamo fatto con i nostri figli quando erano piccoli. Lui no: Aylan si è addormentato a pancia in giù come un ranocchietto sulla pancia di una madre cattiva che gli ha riempito gli occhi e la bocca di sabbia.
Il perché lo sappiamo: a monte, le guerre alimentate dai paesi occidentali in nome di una presunta democrazia; a valle, o a riva come in questo caso, il rifiuto degli uomini verso gli uomini. Ma non basta, non può bastare.
Io vorrei che a vedere quella foto di Aylan sulla riva come un ranocchietto fosse costretto Salvini, dieci ore al giorno, trattamento Ludovico come in Arancia meccanica, con le palpebre tenute aperte con le pinze; vorrei che a vederla quella foto, trattamento Ludovico, fosse la figlia dei Solano uccisi a Palagonia, figlia di emigrati, il cui dolore televisivo sembrava essere di poco conto rispetto al livore, quasi non aspettasse altra occasione per spargere quel veleno inoculato dal razzismo leghista. Rosita Solano ha chiesto a Renzi perché i suoi genitori sono stati uccisi. Sono certa che non chiederà né a Renzi né all'Europa né a nessun altro perché un bimbo siriano di tre anni è stato ucciso fuggendo dall'orrore: non glielo chiederà perché sono anche quelli come lei - che li odiano non (comprensibilmente) perché gli abbiano ucciso madre e padre, ma per il colore della pelle - ad avere ucciso Aylan e tutti gli altri bimbi rimasti a galleggiare in mare come bambole nei giorni scorsi.
Forse Aylan si è messo a pancia in giù e ha chiuso gli occhi per non vedere la cattiveria della gente.

sabato 29 agosto 2015

Umanità naufragata

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Non so se sia giusto o no pubblicare sui social network le foto dei bambini naufragati durante la migrazione forzata. Oggi sembra sia questo l'argomento: l'opportunità della pubblicazione, piuttosto che la morte di quei bambini. Chi lo fa rivendica il dovere di cronaca, chi non lo fa invoca rispetto.
Io non riesco a guardarle. Le riconosco dal bordo superiore, come si riconosce una canzone malinconica dalle prime note, e mi precipito oltre. Mi aiuta la miopia: prima di aver messo a fuoco, le mie dita hanno già fatto scorrere in giù la pagina. Lo stesso con le immagini di animali seviziati, alcune talmente raccapriccianti da farti odiare quello che le ha messe in rete come se fosse egli stesso l'autore del massacro. Non le guardo e non le condivido: non per indifferenza, ma per proteggerli. Come si fa quando si coprono con un lenzuolo, per evitare loro anche la violenza dello sguardo, pietoso o morboso che sia. Del resto, un lenzuolo piccolo piccolo ti stritola il cuore allo stesso modo perché sai cosa copre anche se non lo vedi.
Credo che la questione - se si debba o meno mostrare quelle foto sia pure con l'evidente e nobile intento di suscitare indignazione e raccapriccio - sia mal posta e mal interpretata. Mal posta perché, nei social come nella vita, genericamente si potrebbe dividere il mondo in due categorie, i sensibili e gli insensibili, e perché - nei social come nella vita -, esclusi alcuni incontri irrilevanti e di poco conto, ciascuno di noi si accompagna ai propri simili. Dunque, per quanto mi riguarda, a persone politicamente e umanamente sensibili alla questione, la cui sensibilità politica e umana non ha bisogno di immagini per avere chiaro il livello di crudeltà. Dalla mia pagina è molto difficile che un qualunque contenuto venga condiviso con fascisti, leghisti o cattolici sensibili all'infanzia soltanto quando serve a soddisfare le loro voglie schifose e del resto sono convinta che fascisti, leghisti e quei cattolici di cui sopra anche vedendole non proverebbero il minimo sentimento di pietà.
Ma la questione è mal interpretata, credo, per un altro "dettaglio" che dettaglio non è: che questa diatriba sull'utilità di pubblicare quelle foto avviene esclusivamente all'interno della categoria dei "sensibili", alcuni dei quali però non riescono a fare a meno di dare lezioni per di più urlando e insultando. Sicché si sprecano le maiuscole, i commenti lividi, le parole sprezzanti. Non contro chi ha fatto sì che dei corpicini appena un po' più grandi di una bambola galleggiassero senza vita in un mare spaventosamente grande, ma contro chi cerca di dire come la pensa e di motivare la scelta di non pubblicare. E il rischio è che - per questa aggressività mal riposta - la nostra umanità e la nostra indignazione per quei bambini uccisi da politiche di rifiuto finiscano in fondo al mare, come migranti naufragati.

martedì 25 agosto 2015

Geishe 2.0


In Giappone hanno inventato le coccole in condivisione e hanno aperto pure un bar o, se volete, cuddle coffee, dove i clienti pagano per dormire con qualcuno che li tratti amorevolmente.
Niente sesso (siamo giapponesi?), specificano, ma quello che balza immediatamente agli occhi leggendo i diversi articoli che ne parlano è che il locale - Soneya si chiama - "affitta ad ore le proprie dipendenti". Dunque geishe 2.0, artiste delle tenerezze, qualcosa di molto simile a delle prostitute, almeno nell'idea che ne abbiamo noi occidentali, con l'aggravante che si tratta di vendere non il corpo ma un surrogato di affetto. Non si parla dei "propri dipendenti". Quindi prostituti - sia pure delle coccole - non è contemplato, a quanto pare. Termine escluso del resto anche dal computer, che infatti lo sottolinea come errore. Mentre sono sicura che si genufletterebbe ammirato se la parola fosse gigolò.
Né del resto è contemplato, evidentemente, che una donna bisognosa di affetto decida di farsi smanettare, a pagamento per di più, da un tizio mai visto prima. Forse perché le donne sono più esigenti o forse perché di rapporti fasulli ne subiscono già fin troppi nella vita reale.
C'è pure un tariffario, da mezz'ora a una notte intera. Ma non è chiaro chi controlla - una telecamera nascosta? - se, nel chiuso della stanza e con l'andare delle ore, i due co-sleepers - esaurita la razione di abbracci e carezze - non si mettano a fare sesso, consenzienti o meno.
Statemi a sentire: ci sono alcune cose nella vita che non si possono fare per soldi. Le prime due che mi vengono in mente sono l'amore e la politica, altrimenti è merda. E se proprio soffrite la solitudine e di essere umani disposti a regalarvi affetto non riuscite a trovarne, rivolgetevi al regno animale. Prendete un gatto. E' gratis: sia il gatto che le coccole. E d'inverno ha anche il vantaggio di farvi risparmiare sul riscaldamento.

venerdì 21 agosto 2015

Licenziate il portiere

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Ve lo dico sinceramente: a me che il pezzo di merda mafioso Vittorio Casamonica sia stato fatto entrare in chiesa da morto (e presumibilmente soprattutto da vivo) non importa e non mi stupisce. Non m'importa, perché non è casa mia e anzi mi fa un tale schifo da tenermene il più lontano possibile; e non mi stupisce perché il fatto che all'interno di quella comunità ci siano tre mosche bianche controcorrente, e il fatto che i vertici abbiano assunto uno per inventarsi gli slogan che piacciono alla gente e rilanciare il business non sposta di una virgola e non rende meno grave che la chiesa abbia sempre intrattenuto amicizie più che affettuose (e continui a farlo) con boss, potenti e prepotenti. C'è bisogno di ricordare Pio XII e il fascismo, i rapporti del Vaticano con il bastardo assassino Pinochet o, scendendo più in giù, don Stilo prete ndranghetista o "padre" Agostino Coppola, celebrante delle nozze fra Totò Riina e Ninetta Bagarella? E il "non sapevo chi fosse" del parroco, traduzione simultanea dell'omertoso "nenti sacciu", ne fa di diritto un prete di mafia.
Quello che mi importa, invece, è sapere perché questi possano girare impunemente e fare i gradassi nelle strade di una qualunque città del mio Paese, cioè a casa mia. Voglio sapere perché i vigili urbani gli hanno fatto il servizio d'ordine, voglio sapere perché prefetto e questore non hanno fatto niente per impedire che le strade di Roma di riempissero di merda mafiosa (eppure dovevano immaginare qualcosa, visto che al figlio di Casamonica, agli arresti domiciliari, era stato dato il permesso di partecipare al funerale), voglio sapere chi ha autorizzato l'elicottero a sorvolare il nostro spazio aereo. Nei condomìni dove ancora ci sono i portieri, se il portiere si gira dall'altra parte e fa finta di non vedere quando passa un ladro (figuriamoci un assassino), quindi è complice, si fa una cosa semplicissima: si licenzia. E qui i portieri da licenziare sono tantissimi a quanto pare. A partire da quella  sottospecie di ministro che dovrebbe dare le direttive e invece si limita a fare una parodia di voce grossa dopo che i buoi sono scappati e i boss sono stati sepolti con tutti gli onori. Ha l'indignazione postuma lui.
Tornando alla chiesa cattolica (che è un po' come il Pd: pochissime persone per bene e molti delinquenti, che siano criminali comuni o politici), mi aspetto che i pochi onesti che stanno lì dentro, di fronte a questa goccia che dovrebbe far tracimare la diga, decidano di uscire dal partito.
Importante, comunque, che tutti questi baciapile non si arroghino il diritto di spiegare l'etica agli altri. Chi tollera quanto accaduto ieri a Roma è complice e se non s'indigna e non reagisce di fronte alla totale subalternità dello Stato alla mafia, moralmente è colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa.

lunedì 17 agosto 2015

So' stressata


E dunque gli americani, che fanno ricerche scientifiche pure sul perché se pesti una merda bestemmi in barba al fatto che ti hanno raccontato che porta fortuna, hanno scoperto che essere gentili riduce l'ansia.
Due psicologhe sociali, Jennifer L. Trew e Lynn E. Alden, secondo quanto riporta Huffington Post America, "hanno diviso 115 studenti delle superiori con autodiagnosi di “fobia sociale” in tre gruppi. A un gruppo è stato chiesto di provare a combattere l’ansia facendo piccoli favori e gentilezze nei confronti di amici e familiari. A un altro gruppo è stato detto di fronteggiare l’ansia in modo diretto, lanciandosi in conversazioni e partecipando a eventi. Al terzo gruppo, invece, è stata affidata la funzione di controllo: tenere traccia dei loro sentimenti quotidiani durante il mese dell’esperimento".
Risultato: "i giovani impegnati nella pratica della gentilezza hanno riportato stati d’animo meno ansiosi, e la loro vita sociale è migliorata". Di più: "Diversi studi hanno dimostrato che essere gentili ci rende più felici (bastano solo poche parole gentili), meno stressati e addirittura più longevi".
Ora, io sono un tipo ansioso, molto ansioso, ma sono anche - almeno credo - molto gentile: saluto sempre, mi sposto per strada per fare passare un'altra persona, cerco di essere sempre disponibile, se mi chiamano rispondo, dico sempre grazie e prego. E però evidentemente su di me questa terapia non funziona: perché se uno non risponde al mio saluto, non si sposta per farmi passare, non dimostra disponibilità, mi ignora se lo chiamo, non dice né grazie né prego, m'incazzo e pure di brutto. Non smetterò per questo di praticare gentilezza a casaccio, ma se la gente non la smette di propinare atti di maleducazione privi di senso poi non vi meravigliate se do di matto. Eh, so' stressata.

mercoledì 12 agosto 2015

Ho il cervello alto


Chiariamo subito un paio di cose: 1) a dare del sessista ad Andrea Scanzi non c'è gusto, tanto se lo dice da sé e francamente non so se non sia meglio uno che ammette il proprio sessismo rispetto ad uno che si proclama femminista e tratta la propria compagna come si trattavano i neri nelle piantagioni di cotone; 2) a me le infradito piacciono, mi sono sempre piaciute: mi piacevano quelle che una volta si trovavano solo a Positano, essenziali e raffinatissime nella loro semplicità, due striscette a croce latina e il cinturino dietro, a terra che più a terra non si può.
Però su una cosa, se la mettiamo solo sul piano estetico, Scanzi ha ragione: le infradito su un piede brutto fanno schifo. E infatti io, che ho dei piedi orribili, mi limito a guardarle in vetrina - sbavando, lo ammetto - e non le ho mai portate se non, al mare e da bambina, quelle di gomma da trecento lire che nei primi giorni ti procuravano piaghe che manco in guerra e, quando ti eri abituata, sbullonavano costringendoti a trascinarle come se ai piedi avessi un paio di pattine.
A Scanzi, d'altra parte, bisogna riconoscere che riserva lo stesso trattamento ai maschi in ciabatte in città: che fanno schifo come la canottiera di Bossi o come lo spacco del culo - maschile o femminile, magro o lardoso - che sgorga dai pantaloni a vita bassissima come la lava dal vulcano.
Invece, sul tacco basso e sui sandali alla francescana (che secondo lui sarebbero "anticoncezionali" - e a ben guardare non sarebbe poi così male - ma forse voleva dire anticopula) non sono d'accordo. Perché, come sempre, bisogna fare dei distinguo: io, che sto in fissa con le scarpe basse e le porterei anche a una cena di gala se solo fossi solita frequentare le cene di gala, sono alta un metro e uno sputo e sono convinta che se mi mettessi a camminare sui trampoli oltre che sembrare un patetico clown e oltre che fare un torto alle mie caviglie, lo farei anche alla mia figura che mi dicono essere - pur nella categoria lillipuziana - abbastanza armoniosa.
Detto ciò, dal piano estetico passo a quello razionale e gli dico altre due cose: 1) le scarpe basse - Scanzi se ne faccia una ragione - sono comode e siccome le donne, che gli piaccia o no, non sono manichini da esporre dietro la vetrina di un negozio ma corrono dalla mattina alla sera per stare dietro al lavoro, ai figli, ai compagni, ai cani e ai gatti, rivendico per la categoria il diritto a camminare pure scalze e pure con dei piedi orribili come i miei; 2) non me la prendo perché so che la sua era una provocazione estiva e perché Andrea Scanzi ha un merito - per me irrinunciabile - che la gran parte dei giornalisti non ha e cioè quello di scrivere bene in Italiano e dunque, come Virna Lisi, con quella penna può dire (quasi, non esageriamo) ciò che vuole, però se per venirgli voglia di scopare ha bisogno di vedere una bambola gonfiabile issata su un tacco 12, sta messo male. Per quanto mi riguarda (e lui, consapevolmente affetto dalla mia stessa malattia, mi perdonerà la presunzione), io preferisco sedurre un uomo perché ho il cervello alto.