mercoledì 5 febbraio 2020

Mi toccheranno i campi di lavoro (ho visto Sanremo)

Premessa: non ho mai detto che non l’avrei visto. E non perché non creda nel valore del boicottaggio, ma perché sarebbe stato come pensare di boicottare l’inquinamento non respirando. 
Sanremo è da settant’anni un pezzo di vita degli italiani con cui, vuoi o non vuoi, anche senza guardarlo, devi fare i conti perché tanto l’indomani ne parleranno tutti e perché è comunque uno specchio della società così come la società è uno specchio di Sanremo. 
Dunque lo guardo, anche se qualcuna convinta di possedere la verità rivelata aveva deciso che le femministe non dovessero guardarlo e aveva dettato la linea dalla quale non si poteva derogare e deragliare (temo che adesso ci toccheranno i campi di lavoro). 
Lo guardo per «interesse sociologico» - come dice una mia amica -, ma a pezzetti e oltre una certa ora non vado. Quindi se entro la prima ora/ora e mezza succede qualcosa di buono, mi sarà andata di lusso; altrimenti ciccia e l’indomani vengo a sapere cosa mi sono perso. 
Ho avuto qualche discreta botta di culo negli anni: avevo la tv accesa e mi aggiravo per casa senza prestare troppa attenzione, per esempio, nel febbraio del 1994, quando all’improvviso…minchia! Si parlava di mafia, si parlava delle stragi del 1992 e ’93, si parlava di agenti di scorta, quelli che nei tg vengono chiamati solo «agenti di scorta», come se non avessero nome, che rischiano la vita per due lire. Minchia, signor tenente! E ancora mi vengono i brividi quando ci ripenso, quando ricordo che rimasi paralizzata e senza fiato. Faletti aveva fatto una doppia operazione in un colpo solo: aveva parlato di uno degli argomenti più scabrosi nel paese della mafia che «non c’è» e in più aveva sdoganato davanti a milioni di spettatori e fatto diventare italiana una parola (una parolaccia) che prima era solo siciliana. 
Qualche anno prima, nel 1988, guardavo e non guardavo: arrivò Luca Barbarossa e mi si raggelò il sangue. L’amore rubato si chiamava la sua canzone di cui forse non si ricorda più nessuno ed era forse una delle prime a Sanremo (se non la prima) che affrontasse il tema della violenza sessuale. 
Arrivo al 2017 (per non farla troppo lunga), tre anni fa, quando sul palco dell’Ariston arriva un ragazzo di talentuosità e sensibilità potenti, che ci sbatte in faccia la violenza sulle donne: Vietato morire. Milioni di spettatori, milioni di ragazzini e ragazzine sentono parole semplici e imparano il femminicidio: io stessa quel brano di Ermal Meta l’ho portato nelle scuole tutte le volte che potevo per introdurre un libro sulla violenza di genere e grazie a quel brano entravo immediatamente in sintonia con le studentesse e gli studenti. Vuol dire che funzionava.
E allora perché oggi non dovrei postare sui social lo straordinario monologo di Rula Jebreal? Ieri sera sono andata a letto troppo presto e non l’ho visto, ma è stata la prima cosa che ho fatto stamattina e non rimpiango quei dodici minuti spesi. Mi sembrava un dovere civico e persino professionale. E no, non l’ho fatto per poterne parlare sui social: l’ho fatto perché possano vederlo e possano parlarne quelli che - per una ragione qualunque che non ho intenzione di giudicare - non l’hanno visto ieri sera. Anche le parole di Jebreal funzionavano, senza intellettualismi e accademicità. E dunque l’ho postato sui social, per quei pochi che non l’hanno visto. Perché è giusto e doveroso che quel dolore vero che molte di noi conoscono, che quelle lacrime che scorrono senza chiedere permesso e fanno da sottofondo a parole lucide e razionali diventino le lacrime di tutti e soprattutto le parole di tutti: la presa di coscienza di tutti. Non è forse quello che auspichiamo da tempo? E se Sanremo è lo strumento, va bene così.