domenica 9 dicembre 2018

Buongiorno in cortile

Passeggiata di gruppo in uno dei quartieri più centrali e a un tempo più periferici della città. Sovraffollato eppure solo. Derelitto, tenuto a distanza come un appestato. Un frullato di storia, case abusive, superfetazioni, superfetazioni delle superfetazioni, amianto, antenne paraboliche, gente per bene e gente per male, l’immancabile babbo natale che si è impiccato a un balcone, un mandarino che dà i frutti malgrado tutto da una latta arrugginita. In un’altra latta un ulivo: rigoglioso, in ottima salute. Sopravvivenza. E poi i cortili. 
Da un primo piano si affaccia una coppia per chiacchierare con noi. Un po’ ciceroni, un po’ filosofi: ci spiegano cosa c’era in quell’angolo e cosa in quell’altro, ma soprattutto come si affronta la vita. Loro stanno lì dagli anni settanta, spiega lui. Poi si corregge: lei da più tempo, da prima di sposarsi, qualche strada più in là. Orgoglioso per quella dote di memoria supplementare ricevuta in dono.
Chiariscono che cortile non è «u cuttigghiu», il chiacchiericcio da comari, come lo intendiamo noi, ma un modo di vivere in comunità. Se uno ha «bisogno», ma non necessariamente bisogno di denaro, e fa il gesto delle tre dita che sfogliano banconote immaginarie, tutti gli altri ci sono. Se non stai bene e hai bisogno di essere accompagnato in ospedale, o se hai bisogno che qualcuno ti faccia la spesa, se hai bisogno di qualcuno che ti tenga i bambini per un po’, se hai bisogno di un limone o se hai bisogno di parlare, se hai bisogno di un abbraccio o se hai bisogno di un buongiorno. Che non è solo un buongiorno, un augurio, una formula di saluto rituale.
«Dipende il buongiorno come si dice», precisa la signora. E io non so perché, ma tutto intorno immagino una danza di corse in auto verso un ospedale, mani accarezzate in silenzio per dare conforto, spese in conto terzi, sguardi che in silenzio ti chiedono come stai, babysitteraggio improvvisato, limoni prestati, cuori che battono all’unisono, stessa disgrazia e povertà, stessa dignità, il profumo di un dolce che viaggia da una casa all’altra, occhi lucidi di affetto, pensieri che dicono «io per te ci sono». Sì: «Dipende il buongiorno come si dice».
Solo qualche via più in là, lì dove dici «centro» e lo pensi con la C maiuscola, la gran parte dei miei vicini non risponde al saluto. Mi è persino capitato di essere guardata in cagnesco per aver salutato, perché il buongiorno, anche se non è il buongiorno carico di vita di un quartiere negletto, ti inchioda alle tue responsabilità, ti dice che devi accorgerti degli altri e prenderti cura di loro, magari intuire dal tono della voce se hanno bisogno di qualcosa. Magari intuire che i veri bisognosi siamo noi, che abbiamo bisogno di umanità e di un cortile in cui coltivarla. Anche se in una latta arrugginita.

lunedì 3 dicembre 2018

Noi non ci saremo

Signor Salvini, le mando la mia foto. Nel caso in cui dovesse servirle. Ho visto che ha fatto una specie di lista di proscrizione, con tanto di foto segnaletiche, di quelli che lei non ha invitato alla manifestazione della Lega indetta per l’8 dicembre a Roma. 
“Lui (Lei) non ci sarà” ha fatto scrivere sopra la foto di ciascuno dei suoi nemici, da Laura Boldrini a Roberto Saviano, da Fabio Fazio a Matteo Renzi, da Asia Argento a Chef Rubio. Quindi la prego di far inserire anche la mia di foto. Certo, non che mi faccia piacere stare in mezzo a renzi/renzini/renziani, che ritengo fra i principali responsabili del suo stare al governo per quella storia dell’originale e della fotocopia, ma io non ci sarò (io e milioni di altri italiani, per fortuna) e non perché lei non mi abbia invitata alla sua marcia su Roma, ma perché non ci voglio venire: perché lei odia i neri, le donne, gli omosessuali, le Ong che soccorrono i migranti in mare, gli insegnanti, i poveri, gli studenti, gli intellettuali, i partigiani e tre quarti di mondo civile; e io non ci sarò, noi non ci saremo, come dicevano i Nomadi, nella sua guerra contro l’umanità.