sabato 19 settembre 2020

Eleanor, detta Tussy

 Lei riesce a dirgli quello che prova solo recitando e la loro stessa relazione diventa un’unica recita, soltanto una recita. Lui non capisce, o finge di non capire, comunque gli sta bene così.

Ti viene una rabbia: una donna colta, intelligente, brillante, consapevole, disinibita, battagliera, cresciuta in un ambiente intellettualmente e politicamente ideale, che sa perfettamente come un rapporto d’amore debba essere basato sul rispetto reciproco, lo spiega alle altre donne, ci incentra interi comizi, così come rivendica diritti per i lavoratori e condanna il lavoro minorile. Ma subisce: il tradimento, l’irresponsabilità, le assenze, le bugie di un uomo inutile. Se ne prende cura nel fisico e nell’anima, si fa schiacciare dal peso di questa contraddizione. Che rabbia, che rabbia, che rabbia. 

Ieri sera ho visto Miss Marx, il film sulla figlia minore di Karl Marx e sua più stretta collaboratrice, Eleanor che tutti chiamavano Tussy, e che l’unica cosa in cui riesce a imporsi con quell’uomo invertebrato è di farsi chiamare con il suo vero nome invece che con quel vezzeggiativo. Per il resto, un budino senza personalità nel rapporto con lui. 

Qualcuno obietterà che era pur sempre una donna vissuta quasi due secoli fa, e non dovremmo stupirci, non dovremmo giudicarla con il nostro metro (e chissà poi qual è ormai il nostro metro se i nostri decenni di battaglie sono finiti nel cesso di un istituto scolastico che vieta le minigonne), ma la mia è una rabbia tutta contemporanea perché ogni scena del film mi riportava a donne che conosco, vive e vegete, non pezzi di storia, cadaveri putrefatti e ammuffiti, ma la nostra stessa quotidianità: le nostre madri, le nostre sorelle, le nostre amiche, le nostre colleghe di lavoro, quasi tutte con studi di alto livello, come Tussy colte e consapevoli. Sulla carta, sulla pergamena di laurea. E poi crocerossine: pronte a curare ferite del corpo e dell’anima, a minimizzare le violenze di chi le vuole annientare, a giustificare uomini incapaci di crescere, a fingere di non vedere e non capire, persino a tutelare dal giudizio altrui chi le sta distruggendo. Ne conosco più d’una molto da vicino. E mi fa una rabbia che mi fa esplodere il cuore.

Ho letto una recensione che criticava duramente la regista Susanna Nicchiarelli per avere mostrato questo lato di Eleanor. E perché non avrebbe dovuto? Avrebbe dovuto - come fanno i maschi che parlano di maschi nei libri di storia – dipingerla come un’eroina senza alcun punto debole? Costruire una statua, metterla sul piedistallo e non spostarla più? Fingere che quel problema non esista e che non sia ancor più devastante per una donna che si fa avanguardia politica? Io credo di no. Credo che dovremmo parlarne e riprendere a parlarne di queste contraddizioni, compagne e sorelle: che ci monti dentro una rabbia incontenibile - ma che sia collettiva -, come quella che è venuta a me a ogni cedimento di Eleanor nei confronti del verme. Quando mi veniva voglia di prenderla per mano e dirle: «Vieni, parliamo, la tua vita merita una vita».

 

P.S.: Spettacolare il momento della sua «ribellione rock», per quanto solitaria; di grande impatto emotivo l’Internazionale cantata durante la dispersione in mare delle ceneri di Engels. Anche se il primo a intonarla è proprio il verme e io questo merito non glielo avrei concesso.