mercoledì 24 ottobre 2018

Bambini da combattimento

Ho pensato subito ai cavalli. Nella mia città, se ti svegli all’alba, li vedi dal balcone: rientrano a casa, nella stalla (di solito poco più di un garage dove stanno stipati come sardine), dopo una nottata di corse clandestine che fanno guadagnare pacchi di soldi alla mafia. Che, quando non servono più alle gare, li macella altrettanto clandestinamente e li dà da mangiare ad avventori cornuti e felici che se ne fregano della provenienza: importante far godere la pancia e il palato. E ho pensato ai cani da combattimento, allevati cattivi per gente cattiva che si diverte solo se vede il sangue e la sofferenza. E, anche loro, finiti con un colpo di pistola quando non servono più.
Il fatto è che qui si parla di bambini o poco più: bambini alienati, che – c’è da scommetterci – non vanno in bici, non guardano i cartoni adatti alla loro età, non si incontrano al campetto per una partitella, non fanno niente di niente di ciò che dovrebbero fare dei ragazzini. Sono bambini da combattimento, che da alcune settimane si danno appuntamento nel centro storico di Piacenza – non prima di avere annunciato l’evento sui social – e si fracassano di botte mentre altri loro coetanei li filmano per diffondere i video in rete e li incitano con il sangue agli occhi come i pitbull: «Spaccagli il culo! Ammazzalo!».
Il Questore ha rivolto loro – come si dice in questi casi – un «accorato» quanto inutile appello, avvertendoli che anche da spettatori si è complici, e poi ha indirizzato le sue parole anche ai genitori, invitandoli a vigilare sui loro figli.
Ma, appunto, dove sono i genitori? E dove sono stati allevati questi genitori? Forse sono gli stessi che, se il figlio prende una nota sul registro, vanno a prendere a pugni l’insegnante; o gli stessi che si nutrono di talk show dove se non vedi il sangue (per quanto metaforico) non ti diverti; o ancora quelli che vanno ai comizi di Salvini per sentirgli augurare la morte ai migranti o ai penosi spettacolini di un comico senza più idee di nome Beppe Grillo che istiga all’odio verso i bambini autistici.
Se la società tutta non correrà subito ai ripari, se il Paese tutto non ritroverà l’umanità e la ragione, invece di correre dietro a politici frustrati e violenti, finiranno male questi bambini da combattimento cresciuti come piccoli boss: forse ammazzati come grandi boss, macellati e dati in pasto a un’opinione pubblica sempre più assetata di sangue. Che fingerà contrizione in favore di telecamera nel momento della tragedia e, una volta svoltato l’angolo, correrà a cercare in rete il video dell’ultimo scazzottamento. Con tutta l’intenzione di godersi lo spettacolo.

giovedì 11 ottobre 2018

La prescrizione del dolore

Negli anni settanta per comprare una 500 ci volevano cinquecentomila lire. È la stessa cifra che pagò, nel 1972, un uomo (un uomo? Un orco. Un porco) di 32 anni arrivato dal Piemonte in Calabria per comprare una ragazzina di 14 anni e portarsela a casa per farci quello che voleva: oltre quarant’anni durante i quali non ha fatto altro che maltrattarla e costringerla a prostituirsi, non dimenticando nel frattempo di farle fare una figlia dopo l’altra. Magari – ma questo forse non lo sapremo mai – per riservare anche a loro lo stesso trattamento.
Fino a quando, nel 2016, lei non lo ha ammazzato somministrandogli in dosi da cavallo un sonnifero che aveva fatto prescrivere per sé.
Oggi quella ragazzina, ormai sessantenne, dopo che finalmente in aula erano venute fuori le ragioni di quel delitto, è stata condannata dalla Corte d’Assise d’Appello di Torino a 21 anni e 3 mesi di reclusione, respingendo la richiesta di ergastolo da parte della procura ma anche quella di considerare le attenuanti generiche avanzata dalla difesa: «Fatti di 45 anni fa – hanno detto i giudici – non le giustificano».
Fatti di 45 anni fa, andati avanti per 40 anni, non le giustificano? Avere distrutto la vita di una ragazzina di 14 anni, averla riempita di botte e prostituita per oltre quarant’anni non giustifica le attenuanti generiche?
Sì, è vero, un omicidio è pur sempre un omicidio e averlo fatto con un sonnifero forse contempla la premeditazione; sì, è vero, qualcuno lo dirà certamente, quella donna avrebbe potuto denunciarlo. Ma siamo sicuri che non avesse una paura fottuta delle conseguenze, per sé e forse anche per le sue figlie? E siamo sicuri che non avesse la certezza di non essere creduta, che per tutti suo marito era un brav’uomo che salutava sempre e non avrebbe fatto male a una mosca? Troppe ne abbiamo viste e sentite di donne che finiscono per farsi ammazzare nel timore di essere giudicate e abbandonate da tutti e dalla Giustizia prima di tutti. E allora lei ha deciso di farsi giustizia da sé. Ha sbagliato, certo, ma la Giustizia ha avvalorato i suoi timori con quella formula asettica e matematica secondo cui il dolore e le umiliazioni dopo 45 anni vanno in prescrizione.