domenica 9 dicembre 2018

Buongiorno in cortile

Passeggiata di gruppo in uno dei quartieri più centrali e a un tempo più periferici della città. Sovraffollato eppure solo. Derelitto, tenuto a distanza come un appestato. Un frullato di storia, case abusive, superfetazioni, superfetazioni delle superfetazioni, amianto, antenne paraboliche, gente per bene e gente per male, l’immancabile babbo natale che si è impiccato a un balcone, un mandarino che dà i frutti malgrado tutto da una latta arrugginita. In un’altra latta un ulivo: rigoglioso, in ottima salute. Sopravvivenza. E poi i cortili. 
Da un primo piano si affaccia una coppia per chiacchierare con noi. Un po’ ciceroni, un po’ filosofi: ci spiegano cosa c’era in quell’angolo e cosa in quell’altro, ma soprattutto come si affronta la vita. Loro stanno lì dagli anni settanta, spiega lui. Poi si corregge: lei da più tempo, da prima di sposarsi, qualche strada più in là. Orgoglioso per quella dote di memoria supplementare ricevuta in dono.
Chiariscono che cortile non è «u cuttigghiu», il chiacchiericcio da comari, come lo intendiamo noi, ma un modo di vivere in comunità. Se uno ha «bisogno», ma non necessariamente bisogno di denaro, e fa il gesto delle tre dita che sfogliano banconote immaginarie, tutti gli altri ci sono. Se non stai bene e hai bisogno di essere accompagnato in ospedale, o se hai bisogno che qualcuno ti faccia la spesa, se hai bisogno di qualcuno che ti tenga i bambini per un po’, se hai bisogno di un limone o se hai bisogno di parlare, se hai bisogno di un abbraccio o se hai bisogno di un buongiorno. Che non è solo un buongiorno, un augurio, una formula di saluto rituale.
«Dipende il buongiorno come si dice», precisa la signora. E io non so perché, ma tutto intorno immagino una danza di corse in auto verso un ospedale, mani accarezzate in silenzio per dare conforto, spese in conto terzi, sguardi che in silenzio ti chiedono come stai, babysitteraggio improvvisato, limoni prestati, cuori che battono all’unisono, stessa disgrazia e povertà, stessa dignità, il profumo di un dolce che viaggia da una casa all’altra, occhi lucidi di affetto, pensieri che dicono «io per te ci sono». Sì: «Dipende il buongiorno come si dice».
Solo qualche via più in là, lì dove dici «centro» e lo pensi con la C maiuscola, la gran parte dei miei vicini non risponde al saluto. Mi è persino capitato di essere guardata in cagnesco per aver salutato, perché il buongiorno, anche se non è il buongiorno carico di vita di un quartiere negletto, ti inchioda alle tue responsabilità, ti dice che devi accorgerti degli altri e prenderti cura di loro, magari intuire dal tono della voce se hanno bisogno di qualcosa. Magari intuire che i veri bisognosi siamo noi, che abbiamo bisogno di umanità e di un cortile in cui coltivarla. Anche se in una latta arrugginita.

lunedì 3 dicembre 2018

Noi non ci saremo

Signor Salvini, le mando la mia foto. Nel caso in cui dovesse servirle. Ho visto che ha fatto una specie di lista di proscrizione, con tanto di foto segnaletiche, di quelli che lei non ha invitato alla manifestazione della Lega indetta per l’8 dicembre a Roma. 
“Lui (Lei) non ci sarà” ha fatto scrivere sopra la foto di ciascuno dei suoi nemici, da Laura Boldrini a Roberto Saviano, da Fabio Fazio a Matteo Renzi, da Asia Argento a Chef Rubio. Quindi la prego di far inserire anche la mia di foto. Certo, non che mi faccia piacere stare in mezzo a renzi/renzini/renziani, che ritengo fra i principali responsabili del suo stare al governo per quella storia dell’originale e della fotocopia, ma io non ci sarò (io e milioni di altri italiani, per fortuna) e non perché lei non mi abbia invitata alla sua marcia su Roma, ma perché non ci voglio venire: perché lei odia i neri, le donne, gli omosessuali, le Ong che soccorrono i migranti in mare, gli insegnanti, i poveri, gli studenti, gli intellettuali, i partigiani e tre quarti di mondo civile; e io non ci sarò, noi non ci saremo, come dicevano i Nomadi, nella sua guerra contro l’umanità.

mercoledì 28 novembre 2018

Fantasmi

Carlo ha sessantotto anni. Da qualche anno è andato in pensione e finalmente si gode la vita. Niente di eccezionale, sia chiaro: faceva l’operaio, ma aveva cominciato a lavorare giovanissimo e dopo tanti anni di contributi qualche sfizio se lo può passare. Qualche viaggetto con la moglie anche lei pensionata per andare a trovare la figlia che insegna all’università in Francia e i suoi sono orgogliosi dopo tanti sacrifici per farla laureare, il progetto di una grande festa con gli ex compagni di lavoro per i suoi settant’anni ché ormai mancano solo due anni, l’acquisto della macchina nuova, al cinema un paio di volte a settimana, persino un abbonamento a teatro. E poi. E poi tutti i regali possibili per viziare i nipotini, le ore di gioco trascorse con loro. 
Bella la vita. 

Davide ha 21 anni. Ha preso una laurea triennale e ha trovato quasi subito lavoro, gratificante, ben retribuito, tredicesima, tutto in regola. Con la sua fidanzata, anche lei laureata e occupata, hanno deciso di prendere una casa in affitto e andare a vivere insieme. Fra qualche anno magari una casa la compreranno pure e faranno anche dei bambini. Per adesso si godono la vita.
Bella la vita.

Però non è andata così. Perché Carlo a sessantotto anni ancora lavorava, innaturalmente, secondo le leggi di mercato in base alle quali devi lavorare fino a schiattare, e una settimana fa infatti c’è schiattato: incidente sul lavoro lo chiamano. Schiacciato da un braccio meccanico in un’azienda per il commercio del pesce in provincia di Ferrara. Non è ancora chiaro se le norme di sicurezza fossero rispettate; quello che è certo è che a sessantotto anni è possibile non avere più i riflessi pronti ad affrontare l’imprevisto. E Davide invece aveva un lavoro di merda: apparteneva alla lunga schiera di quelli che non si possono permettere di studiare, e anche se avesse studiato non poteva ambire al lavoro che gli spettava, perché in Italia il lavoro è un optional. Raccoglieva rottami ferrosi Davide e di quel lavoro di merda ci è morto dopo essere stato investito da una fiammata ed essere rimasto in coma per alcuni giorni nel reparto grandi ustionati dell’ospedale Cannizzaro di Catania.

Carlo Panzavolta e Davide Calogero sono due dei quasi mille morti di lavoro in più in Italia rispetto al 2017. Rientrano nella statistica: secondo l’Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, quelli che muoiono di più sono gli under 34 e gli over 65. I primi, mi sembra evidente, perché accettano lavori di merda pur di lavorare, i secondi perché sono costretti a continuare a lavorare malgrado il fisico non li accompagni più. Gli uni e gli altri perché ai padroni interessa solo il profitto - da ottenere anche a costo di disattendere le più elementari norme di sicurezza – e perché ai governi passati e attuali fa più comodo assecondare i padroni che attuare serie politiche del lavoro.
Salvini e Di Maio? No, non mi pare di avere sentito nessuna parola di solidarietà o di dispiacere dai capi di governo: il primo troppo occupato ad essere solidale con chi uccide un ladro a bruciapelo e a spacciare la pena di morte per legittima difesa, il secondo assolutamente preso a difendersi dall’accusa di essere contitolare dell’azienda del padre dove si lavora in nero. E dove, grazie al lavoro nero, è facile che gli infortuni sul lavoro vengano messi sotto il tappeto e che i lavoratori siano solo dei fantasmi da vivi e da morti. Niente equa retribuzione, niente misure di sicurezza, niente vita. Bella la vita, se non muori di lavoro.

mercoledì 14 novembre 2018

In difesa dell'articolo 21

Io non l’ho postata sui social la foto del mio tesserino professionale. Anzi, mi ha anche dato un po’ fastidio che altri lo abbiano fatto in risposta agli insulti di Di Maio e Di Battista nei confronti dei giornalisti. Perché a me di difendere una corporazione non importa niente, perché so bene che fra i giornalisti ci sono quelli che si prostituiscono e quelli che non si prostituiscono ma è come se lo facessero - dal momento che, per vigliaccheria o per necessità (se ti pagano cinque euro al pezzo, non è facile fare il vendicatore degli oppressi), non sanno dire dei no -; so anche che ci sono quelli servi per vocazione, ma se della categoria fa parte anche uno come Di Maio, con le sue note carenze in grammatica/storia/geografia/democrazia, vuol dire che un problema c’è al momento dell’iscrizione all’ordine. Vuol dire che, se il famoso tesserino ce l’hanno cani e porci, quindi per esempio l’agente Betulla o un tizio che scriveva di calcio dilettantistico su un giornaletto di paese, la categoria - la corporazione, la “casta” come piaceva dire ai grillini prima che diventassero casta anch’essi – ha un problema.
Non l’ho pubblicata quella foto perché farlo sarebbe equivalso a pronunciare la famosa frase quasi sempre detta o pensata da politici di ogni ordine e grado ogni qualvolta pretendono di avere diritto a qualcosa che non gli spetta e che ti vale l’iscrizione d’ufficio all’ordine degli sboroni: la sempreverde «lei non sa chi sono io». 
A me di difendere una categoria non importa niente, in una consapevolezza che non dovrebbe aver bisogno di essere spiegata e cioè che ci sono i giornalisti bravi, quelli asini, quelli coraggiosi, quelli stronzi, quelli senza spina dorsale, così come se parliamo di medici o di magistrati dovrebbe essere scontato che ci sono quelli bravi, quelli asini, quelli coraggiosi, quelli stronzi, quelli senza spina dorsale. 
Il punto, per quanto mi riguarda, è un altro: se difendo i giornalisti lo faccio per difendere il diritto/dovere di informare ed essere informati (legato a doppio filo con l’esercizio della democrazia, e per questo così fastidioso per dittatori, dittatorelli, aspiranti tali e frustrati di ogni risma); se difendo i medici, è per rivendicare il diritto alla salute per tutti; se difendo l’indipendenza della magistratura, mi spinge il desiderio che i magistrati rispondano solo alla legge e non agli ordini di questo o quel politico, a tutela di tutti i cittadini, senza distinzioni e discriminazioni. Cioè quelle cose fondamentali scritte nella Costituzione italiana, su cui hanno giurato ministri e presidenti del consiglio di oggi e di ieri che poi, alla minima critica da parte dei giornalisti, hanno invocato il plotone di esecuzione. E questo, nessuno escluso, passando da Berlusconi e Renzi e la gran parte dei dirigenti dei loro partiti che ora si ergono a difensori della democrazia, prima di arrivare agli improbabili governanti dell’oggi.
Perciò penso che oggi, come ieri e l’altro ieri, più che mostrare la copertina bordeaux con le cifre dorate e pronunciare un ideale «lei non sa chi sono io», sarebbe stato meglio pubblicare la copertina della Costituzione o trascrivere il testo dell’articolo 21. Senza fare troppo gli sboroni.

martedì 6 novembre 2018

Una colletta per Ronaldinho

Leggi certe notizie e – come dire? – ti girano. E ti fumano le orecchie.
La notizia riguarda uno di quelli che, secondo il sentire comune (vai a capire perché), dovrebbe essere di esempio ai giovani, incarnare i valori dello sport, rappresentare un sano stile di vita e tutte le balle che ci raccontano per farci digerire la circostanza che uno che si è fatto il culo a studiare e ha una laurea in fisica nucleare lavora in nero come cameriere in un bar mentre un altro che tira calci a un pallone prende soldi a paccate.
L’«altro» in questione risponde al nome di Ronaldo de Assis Moreira, insomma Ronaldinho, ex calciatore del Barcellona e del Milan, che - secondo un articolo del Wall Street Italia – nel 2007, quando aveva 27 anni, guadagnava ventitremila euro al giorno. Cioè, centesimo più centesimo meno, lo stipendio mensile di un professore a fine carriera, tredicesima e quattordicesima comprese.
Ora sembra che «l’esempio di vita», che qualche anno fa ha messo in atto una cosa non proprio esemplare come costruire a Porto Alegre una piattaforma di pesca non solo abusiva ma per di più in un’area protetta sulle rive di un fiume, a un certo punto per questa illegalità si sia beccato una multa e, siccome lui è lui e noi non siamo un cazzo, ha deciso di non pagarla. Sicché il suo debito con lo stato brasiliano, negli anni e con gli interessi, è arrivato a due milioni di euro. E qui viene il bello, cioè la notizia, con un titolo che sembra voler muovere a compassione: «Ronaldinho in rovina, sul conto ha solo 6 euro». 
Lo hanno scoperto quando lo Stato è andato in banca per prendersi quello che gli spettava. Al momento, a quanto pare, a nessuno è venuto in mente che il “povero” Ronaldinho quel conto lo abbia svuotato proprio per non pagare il suo debito e che i soldi siano nascosti chissà dove.
Invece, se non fosse già chiaro dal titolo, l’articolo ci spiega che il calciatore «sarebbe sull’orlo del fallimento». E Dickens si sta rivoltando nella tomba all’idea di quanti soldi avrebbe potuto fare scrivendo un libro su questo nuovo orfanello che avrebbe potuto avere i numeri per diventare un eroe positivo. E invece si è rivelato solo uno stronzo.
Comunque, io fossi in voi comincerei a frugarmi nelle tasche per raggranellare qualche spicciolo e portarglielo fino a casa perché possa sfamarsi. Su, non siate tirchi: facciamo una colletta.

mercoledì 24 ottobre 2018

Bambini da combattimento

Ho pensato subito ai cavalli. Nella mia città, se ti svegli all’alba, li vedi dal balcone: rientrano a casa, nella stalla (di solito poco più di un garage dove stanno stipati come sardine), dopo una nottata di corse clandestine che fanno guadagnare pacchi di soldi alla mafia. Che, quando non servono più alle gare, li macella altrettanto clandestinamente e li dà da mangiare ad avventori cornuti e felici che se ne fregano della provenienza: importante far godere la pancia e il palato. E ho pensato ai cani da combattimento, allevati cattivi per gente cattiva che si diverte solo se vede il sangue e la sofferenza. E, anche loro, finiti con un colpo di pistola quando non servono più.
Il fatto è che qui si parla di bambini o poco più: bambini alienati, che – c’è da scommetterci – non vanno in bici, non guardano i cartoni adatti alla loro età, non si incontrano al campetto per una partitella, non fanno niente di niente di ciò che dovrebbero fare dei ragazzini. Sono bambini da combattimento, che da alcune settimane si danno appuntamento nel centro storico di Piacenza – non prima di avere annunciato l’evento sui social – e si fracassano di botte mentre altri loro coetanei li filmano per diffondere i video in rete e li incitano con il sangue agli occhi come i pitbull: «Spaccagli il culo! Ammazzalo!».
Il Questore ha rivolto loro – come si dice in questi casi – un «accorato» quanto inutile appello, avvertendoli che anche da spettatori si è complici, e poi ha indirizzato le sue parole anche ai genitori, invitandoli a vigilare sui loro figli.
Ma, appunto, dove sono i genitori? E dove sono stati allevati questi genitori? Forse sono gli stessi che, se il figlio prende una nota sul registro, vanno a prendere a pugni l’insegnante; o gli stessi che si nutrono di talk show dove se non vedi il sangue (per quanto metaforico) non ti diverti; o ancora quelli che vanno ai comizi di Salvini per sentirgli augurare la morte ai migranti o ai penosi spettacolini di un comico senza più idee di nome Beppe Grillo che istiga all’odio verso i bambini autistici.
Se la società tutta non correrà subito ai ripari, se il Paese tutto non ritroverà l’umanità e la ragione, invece di correre dietro a politici frustrati e violenti, finiranno male questi bambini da combattimento cresciuti come piccoli boss: forse ammazzati come grandi boss, macellati e dati in pasto a un’opinione pubblica sempre più assetata di sangue. Che fingerà contrizione in favore di telecamera nel momento della tragedia e, una volta svoltato l’angolo, correrà a cercare in rete il video dell’ultimo scazzottamento. Con tutta l’intenzione di godersi lo spettacolo.

giovedì 11 ottobre 2018

La prescrizione del dolore

Negli anni settanta per comprare una 500 ci volevano cinquecentomila lire. È la stessa cifra che pagò, nel 1972, un uomo (un uomo? Un orco. Un porco) di 32 anni arrivato dal Piemonte in Calabria per comprare una ragazzina di 14 anni e portarsela a casa per farci quello che voleva: oltre quarant’anni durante i quali non ha fatto altro che maltrattarla e costringerla a prostituirsi, non dimenticando nel frattempo di farle fare una figlia dopo l’altra. Magari – ma questo forse non lo sapremo mai – per riservare anche a loro lo stesso trattamento.
Fino a quando, nel 2016, lei non lo ha ammazzato somministrandogli in dosi da cavallo un sonnifero che aveva fatto prescrivere per sé.
Oggi quella ragazzina, ormai sessantenne, dopo che finalmente in aula erano venute fuori le ragioni di quel delitto, è stata condannata dalla Corte d’Assise d’Appello di Torino a 21 anni e 3 mesi di reclusione, respingendo la richiesta di ergastolo da parte della procura ma anche quella di considerare le attenuanti generiche avanzata dalla difesa: «Fatti di 45 anni fa – hanno detto i giudici – non le giustificano».
Fatti di 45 anni fa, andati avanti per 40 anni, non le giustificano? Avere distrutto la vita di una ragazzina di 14 anni, averla riempita di botte e prostituita per oltre quarant’anni non giustifica le attenuanti generiche?
Sì, è vero, un omicidio è pur sempre un omicidio e averlo fatto con un sonnifero forse contempla la premeditazione; sì, è vero, qualcuno lo dirà certamente, quella donna avrebbe potuto denunciarlo. Ma siamo sicuri che non avesse una paura fottuta delle conseguenze, per sé e forse anche per le sue figlie? E siamo sicuri che non avesse la certezza di non essere creduta, che per tutti suo marito era un brav’uomo che salutava sempre e non avrebbe fatto male a una mosca? Troppe ne abbiamo viste e sentite di donne che finiscono per farsi ammazzare nel timore di essere giudicate e abbandonate da tutti e dalla Giustizia prima di tutti. E allora lei ha deciso di farsi giustizia da sé. Ha sbagliato, certo, ma la Giustizia ha avvalorato i suoi timori con quella formula asettica e matematica secondo cui il dolore e le umiliazioni dopo 45 anni vanno in prescrizione. 

mercoledì 26 settembre 2018

Un politico da Bagaglino

Quindi in Parlamento siede, sotto falso nome, anche Pippo Franco e non ne sapevamo niente? Pippo Franco, ve lo ricordate, no? Quello tutto tette, culi, coglioni e Berlusconi.
Oggi si fa chiamare Massimo Baroni, deputato dei 5 Stelle e componente della Commissione Affari sociali della Camera, laureato in psicologia che (fonte Wikipedia) «ha lavorato per la riabilitazione di pazienti psicotici». E già questo fa ridere di suo.
A giudicare dai comportamenti dei suoi colleghi di partito/azienda, non dev’essere molto bravo.
Insomma, per farla breve, l’esimio professionista per spiegare la presunta utilità dell’altrettanto presunto reddito di cittadinanza, ha pronunciato le seguenti auliche parole: «Metti il reddito di cittadinanza in Italia e vedi come iniziano tutti a trombare come ricci». Roba che, appunto, manco Pippo Franco ai tempi del Bagaglino o Berlusconi quando diceva che bisognava fare girare «la patonza». Con l’aggravante che, sempre secondo l’esimio professionista, l’attività riccesca farebbe nascere tanti bambini e quindi risolverebbe il problema del calo demografico.
Come si mantengano poi questi bambini con un reddito di 780 euro al mese il deputato Baroni non lo spiega, né chiarisce come si dovrebbe andare la sera in pizzeria, che sempre secondo il deputato Baroni sarebbe propedeutica allo scopamento generale.
Ora, io non vorrei dargli un dispiacere, ma sono costretta a svelare a Baroni come (non) si campa con quella somma. Veda, Onorevole, io – disoccupata da una dozzina da anni – vivo (sopravvivo) grazie a una specie di reddito di mammitanza equivalente. Ebbene, tolti il mutuo di una casa acquistata quando non sapevo che sarei stata licenziata, la luce, l’acqua, il telefono, il gas, la rata della spazzatura che nella mia città non viene raccolta e altre cose simili, esimio Onorevole, le assicuro che a stento mi resta di che dar da mangiare ai miei due gatti. E le assicuro che a dover fare tutti i giorni i conti con gli spiccioli, la voglia di «trombare» - come dice lei – e anche quella di andare a prendere una pizza va, lei sì, a farsi fottere.
Ma davvero lei pensa che con quella somma si possa fare figli e mantenerli pure? Come li comprano i pannolini? Come li mandano all’asilo? E come gli comprano il grembiulino, il cestino, la merendina? E poi i quaderni e le matite quando andranno alle elementari? E i vestiti? E il regalino per il compagnetto o la compagnetta che li invita alla sua festa di compleanno? E tutte quelle cose indispensabili perché la vita sia vita e non una merda?
Suvvia, onorevole Pippo Franco, la smetta di dire cazzate, si scusi per avere offeso la nostra intelligenza e la dignità di chi non ce la fa ad andare avanti, getti la maschera e torni da Berlusconi a fare il Bagaglino.

venerdì 7 settembre 2018

Prova generale

Alessandro è alto un metro e sessanta, pesa 43 chili e ha un pisello intercambiabile che va dai 13 ai 18 centimetri. No, non nel senso di «a riposo» e in posizione eretta: proprio nel senso che – a piacere - smonti quello piccolo e monti (!) quello grande. Che poi, potendo scegliere, chi è così scema da optare per il formato piccolo? Poi ha due tette enormi che manco le maggiorate degli anni cinquanta e due capezzoli che sembrano le valvole di un materassino gonfiabile. Come se non bastasse, ha due fori: «bocca e ano». Orecchie non contemplate. Buchi del naso non pervenuti.
Voi lo vorreste un uomo così? Io nemmeno se si fossero estinti tutti. Diciamolo: uno così fa schifo alla fica.
Eppure sul sito di Lumidolls, la società che ha aperto a Torino il primo bordello di bambole, Alessandro - l’unico puttano della squadra – viene magnificato come fosse un Adone. In più, ci spiegano che «è resistente all’acqua»: non dovesse andar bene come partner, te lo puoi sempre portare al mare invece della paperella. 
Poi ci sono le “donne”: Kate, Ilary (così, senz’acca), Molly, Eva, Arisa, Naomi, Bianca. Di Kate ci dicono che è «maneggevole», praticamente il sogno di ogni uomo; su Ilary senz’acca invece specificano che è «incredibilmente realistica». E precisano: «anche al suo interno». Cioè: «lì», come avrebbe detto Anna Marchesini. Poi c’è Eva, che puoi mettere in tutte le posizioni e schiaffeggiare «il suo sedere sodo e ben definito». Tanto non si ribella – altro sogno maschile – e non c’è bisogno di rischiare la galera per ammazzarla.
Vi risparmio il resto, se non per notare che da qualche parte c’è scritto pure che una di queste bambole «è fatta per dare amore». Ora, va bene tutto, va bene che scopare con una donna (o un uomo) di plastica è una colossale presa per il culo – e il giusto castigo per chi è incapace di relazioni con esseri viventi e in un giallo meriterebbe il ruolo del serial killer -, ma arrivare a parlare d’amore mi sembra troppo persino per gli psicopatici che dovessero rivolgersi ai servigi del bordello torinese.
Psicopatici che però, a quanto pare, sono numerosi a giudicare dal fatto che il luogo di incontri erotici ha aperto da pochi giorni e già ci sono prenotazioni fino a dicembre. 
Per ora così e ci assicurano che è «completamente legale», ma ho un sospetto, un presentimento, un timore, chiamatelo come preferite. E cioè che, essendo tornato il fascismo in Italia (sia pure sotto altre forme, almeno per ora), con esso sono riaffiorati dalle fogne tutti gli istinti più bassi - e fra questi quello di usare le donne come fossero cloache - e che questa sia soltanto una specie di prova generale per far rivivere i bordelli: quelli veri con le donne vere. Del resto, il capo del fascismo del terzo millennio lo aveva già detto un paio di mesi prima delle elezioni che fra i suoi obiettivi c’era anche quello di riaprire le case chiuse. E magari chiuderci dentro qualche “faccetta nera”: di quelle che no, dai barconi non possono scendere, ma per il trastullo di qualche danaroso papà cattolico «à la Salvinì» possono essere rinchiuse in una casa di appuntamenti a fare le schiave. E non c’è proprio niente da ridere.  

mercoledì 8 agosto 2018

Le mie Clarks mai calzate

Diversi anni fa, in viaggio per l’Europa, mia madre mi chiese che regalo volessi portato dall’Inghilterra. Senza un attimo di esitazione, chiesi un paio di Clarks. Dove per me Clarks significava dinoccolate polacchine d’antan, che in Italia costavano (e continuano a costare) un botto e che a me piacciono anche se non si chiamano Clarks. Non avevo tenuto conto del fatto che mia madre non aveva i miei stessi riferimenti modaiol-politico-culturali e soprattutto che quel marchio produce centinaia di modelli diversi.
Tornò in Italia e, orgogliosa, mi consegnò lo scatolo, precisando che aveva scelto il modello più nuovo (e, implicitamente, più costoso): uno scarponcino di pelle marrone scuro, pesante, rigido, a punta quadrata, niente a che vedere con la naturale eleganza di quei Desert  Boots che avevo desiderato per anni. Orribile. Non sono mai riuscita a metterle (con grande senso di colpa per lo spreco di denaro) quelle Clarks, perché mi facevano stare male ricordandomi le calzature piene di sofferenza e vergogna indossate da un bambino un po’ più grande di me che frequentava la mia stessa scuola elementare.
Quel bambino non aveva avuto la fortuna di vaccinarsi in tempo contro la polio ed era rimasto con una gamba più magra e più corta dell’altra e quelle scarpe ortopediche ne erano la testimonianza sfacciata, nemmeno nascosta dai pantaloni perché a quel tempo i maschi portavano i calzoncini corti fino ai primi anni del liceo.
Ecco: al di là del calvario, delle visite mediche, delle terapie dolorose, della disperazione dei genitori, forse possiamo solo provare a immaginare cosa sia stato per lui – una volta adolescente – rinunciare a fare il filo a una ragazzina che gli piaceva, per paura di essere considerato “difettoso” e rifiutato, o non poter indossare un paio di scarpe da tennis e correre come tutti gli altri suoi coetanei.
Certo, quel ragazzo poi ha indossato i pantaloni lunghi e calzato delle scarpe più decenti che non facevano vedere la sua menomazione, ha avuto una vita normale. Ma quanti bambini non vaccinati non arrivano a diventare ragazzi? Quanti non fanno in tempo ad assaporare il primo amore perché muoiono prima ancora di rendersi conto di essere vivi? Quanti non hanno avuto il tempo di desiderare di dare calci a un pallone?
Dovrebbero pensarci quelli che farneticano contro i vaccini e che costruiscono le loro fortune politiche sulla paura dei vaccini. Le multinazionali del farmaco non sono opere di beneficenza e puntano esclusivamente al profitto, e lo sappiamo, e per questo ci fanno schifo, ma chi punta al profitto politico assecondando e alimentando le paure di un popolo sempre più ignorante e lo fa sulla pelle dei bambini non fa altrettanto schifo? Io non voglio aspettare il momento in cui tutto questo gli si ritorcerà contro, perché significherà che tanti bambini si saranno ammalati e forse saranno morti. E sarebbe un prezzo troppo alto. 

martedì 7 agosto 2018

Disprezzato come uomo

Una volta si diceva «non sparate sulla Croce rossa». Un paradosso, impensabile e assurdo. Almeno finora. Leggo su un blog in cui viene illustrato il significato di alcuni modi di dire che questo indicava «una delle azioni più vili che poteva essere compiuta durante la guerra»: «Sparare sui soccorritori – c’è scritto – significava andare a colpire delle persone disarmate, innocue all’altro esercito e impegnate nel salvare vite umane. Chi si macchiava di questa colpa era disprezzato come uomo, prima ancora che come soldato».
Ecco, Matteo Salvini l’ha fatto, sia pure metaforicamente, abbattendo l’ultimo muro rimasto contro la crudeltà: il Ministro dell’Interno, uno “statista”, ha interrotto un suo comizio al passaggio di un’ambulanza e si è sentito spiritoso pronunciando queste parole: «Un attimo che c’è l’ennesimo rosicone di sinistra che non riesce a digerire».
Ecco, veda, signor ministro delle interiora, su quell’ambulanza ci poteva essere lei o un suo parente, magari uno dei suoi figli che chiama sempre in ballo quando cerca inutilmente di rendersi credibile, e con lei o con chiunque fosse là dentro è realistico che ci fosse tutta l’angoscia e il carico di sofferenza che si porta dietro un’ambulanza, dalla preoccupazione di medici e infermieri di non riuscire a salvare una vita umana al dolore di un cuore o di una gamba spezzati, all’angoscia dei familiari. Non c’è nemmeno bisogno di averlo provato, per sapere quanto un’evenienza simile possa far stare male. Io sto male anche soltanto a sentire la sirena dell’ambulanza, a immaginare cosa sta accadendo là dentro. Ma lei, con quella presunta battuta di spirito, ironizzando e facendo sciacallaggio mediatico sul dolore altrui, ha dimostrato ancora una volta (ma non è che ce ne fosse bisogno) quanto lei possa essere malvagio in maniera gratuita – roba che neanche in guerra, appunto – e quanto lei non sia all’altezza del ruolo che ricopre. Anche perché di solito uno non è che chiami l’ambulanza per sport: forse non lo sa, ma ci dev’essere un motivo davvero grave per farlo e lei, sparando sulla Croce rossa, merita di essere «disprezzato come uomo» prima ancora che come esponente delle istituzioni, quelle che una volta si scrivevano con la I maiuscola e che ora, con gente come lei al governo, meritano meno rispetto della merda.
Spero per lei che chi era dentro quell’ambulanza si sia salvato, perché in caso contrario lei andrebbe condannato per vilipendio di cadavere, articolo 410 del codice penale, da tre a sei anni di reclusione. In isolamento per di più, perché la cattiveria è una malattia grave e contagiosa (a giudicare da quelli che hanno applaudito). E non basta l’ambulanza.

domenica 5 agosto 2018

Il cliente ha (quasi) sempre ragione

Entro a comprare una lampadina. Prima di me c’è una signora che sta provando a farsi fare due euro di sconto su una cucina che ne costa 27. Sapete, di quelle a quattro fuochi, appena qualcosa di più di un cucinino da campeggio. 
Lo ha chiesto gentilmente lo sconto, eppure la proprietaria del negozio ha risposto in maniera aggressiva (ma il cliente non aveva sempre ragione? Anche perché potrebbe tornare) finché la signora se n’è andata, a testa bassa, come se dovesse scusarsi di qualcosa, magari di essere povera. Solo dopo che la signora era uscita e si era allontanata, la vigliacca le ha gridato dietro l’esortazione che da qualche tempo, da nord a sud, più  di quanto non facciano storia geografia e lingua, fa l’Italia unita: «Tornatevene a casa vostra!».
Sì, la signora era nera ed evidentemente secondo la commerciante, proprio per il colore della sua pelle, non aveva diritto di chiedere lo sconto come tutti gli altri.
Io sono rimasta lì come una scema. Umiliata. Impietrita. Inebetita. Resa impotente da tanta malvagità. Ho solo deciso fra me e me che lì non ci avrei mai più messo piede, ma dalla mia bocca non è uscita una sola parola. Eppure avrei voluto urlare. La rabbia, la paura, l’indignazione a volte paralizzano. Non posso non pensare alle donne violentate o molestate: non ha urlato – dice qualcuno -, non ha chiesto aiuto, si vede che le piaceva. E invece no. E invece vuol dire che il terrore ti toglie il respiro e la parola. Non sembri eccessivo il paragone, perché quella che ha dovuto subire quella signora (e io con lei, che ho assistito) – immotivatamente – è stata una violenza, tanto più cattiva in quanto gratuita, assurda. In fondo, non aveva fatto altro che quello che fanno tutti entrando in quel negozio nel cuore del mercato di una città del Sud, una di quelle città da cui si emigra da secoli e bisognerebbe essere più empatici: lì si contratta. Lo fanno tutti. Perché lei non avrebbe dovuto?
È passato più di un mese ma non riesco a darmi pace: incazzata con la commerciante, ancora più incazzata con me stessa per non aver avuto la forza di reagire. Mi sento una stronza, per non aver difeso quella signora e la nostra stessa umanità. E perché non riesco a capire quand’è successo che siamo diventati così cattivi, che abbiamo fatto saltare tutte le regole della civile convivenza. Persino quella – opportunista – del cliente che ha sempre ragione.

domenica 22 luglio 2018

Umano?

Surreali e stucchevoli questi funerali senza salma, le parole di cordoglio, i verbi coniugati al passato, i coccodrilli. Marchionne non è ancora morto (o è già morto e non ce lo dicono perché investire in pietà significherebbe fare entrare in fibrillazione le borse e mettere a rischio qualche millesimo di dollaro?) e già la retorica commemorativa scatena parole tanto altisonanti quanto ipocrite. Esilarante (se il momento, almeno per i familiari, non fosse drammatico) la lettera di John Elkann ai dipendenti Fca nel passaggio in cui parla di «qualità umane» dell’ex amministratore delegato e della sua «capacità di capire le persone». Ora, va bene tutto, va bene anche che loro siano fatti della stessa pasta e si credano reciprocamente umani mentre per me la parola umanità ha un significato diametralmente opposto a quello che ha per i padroni, va bene che gli agnelli sono lupi (e mi perdonino i veri lupi), ma credo che il giovane presidente quelle parole avrebbe potuto risparmiarle, appunto per evitare l’ilarità di chi legge. Ché Marchionne tutto è stato fuorché umano. A meno che non vogliamo rifarci al «com’è umano lei» del ragionier Ugo Fantozzi rivolto a uno dei tanti Marchionne che schiavizzano i dipendenti. 
Marchionne aveva come unico obiettivo il profitto. Bravo in questo, certo, ma sulla pelle dei lavoratori. Marchionne ha creduto di avere diritto di vita e di morte su migliaia di operai e sulle loro famiglie, e francamente – ora che la vita ha esercitato il diritto di morte su di lui - la sua morte non può che lasciarmi indifferente. Come lui restava indifferente di fronte agli operai morti sul lavoro, a quelli che si sono suicidati perché lui li ha licenziati, a quelli che dopo il licenziamento si sono fusi con il materasso e sono rimasti a fissare il vuoto del soffitto, nessuna voglia di alzarsi, lavarsi, vestirsi, mangiare, guardare negli occhi un compagno o una compagna di vita.
Sembra che Elkann abbia detto anche di provare un senso di ingiustizia. Anch’io provo un senso di ingiustizia: lo provo ogni volta che un operaio muore perché mancavano le misure di sicurezza, lo provo ogni volta che un operaio viene licenziato perché ha rivendicato un diritto, lo provo ogni volta che una donna non viene assunta perché c’è il rischio che resti incinta, lo provo ogni volta che una donna viene pagata meno di un uomo a parità di mansioni, lo provo ogni volta che un migrante viene trattato da schiavo. E queste sono tutte cose che fanno i padroni, quelli come Marchionne.

giovedì 21 giugno 2018

Via Raffaella Carrà, a Catania

«Scusi, signora», «Scusi, signora». Ci sta un po’ a girarsi, a capire che sto parlando con lei. Forse nessuno l’ha mai chiamata signora. Puttana, troia, zoccola, al massimo «ehi, tu», o «au!» visto che ci troviamo a Catania. Chi vuoi che chiami signora una schiava del racket, nera per di più, costretta a vendere il proprio corpo per fare arricchire gli assassini di umanità che l’hanno portata fin qui con il miraggio di un lavoro? Lavoro di merda. Per pagarsi il viaggio su un barcone a rischio naufragio e mandare qualcosa ai parenti rimasti nel paese d’origine. Notte e giorno, estate e inverno, con quaranta gradi e il sole che ti brucia il cervello o sotto la neve, seminuda a quell’angolo di strada, seduta su una seggiolina sbilenca, all’ingresso di un quartiere popolato da prostitute, immigrati, trans, ultimi degli ultimi, disperati e, da qualche tempo, da giovani donne e uomini che provano a far qualcosa per loro e con loro. Il quartiere San Berillo, un ghetto in pieno centro.
Finalmente si gira verso di me. «Scusi, signora. Via Carro?». «Via?». «Carro». «Via Carro? Forse Via Carrà». E lo ripete due volte. Mi scappa un sorriso: Raffaella Carrà è talmente un’icona del movimento Lgbt che deve aver pensato che le abbiano dedicato una strada proprio in quel rione dove, d’altronde, c’è un murales con la faccia di Fabrizio De Andrè, che gli hanno messo un’aureola dietro la testa e lo hanno pure fatto santo: San Fabrizio dei vicoli.
Comunque no, non lo sa. Grazie, prego. «Provi a chiedere a quella incinta». No, nemmeno lei chiama signora un’altra donna come lei, per quanto incinta.
Via Carro – lo scopro qualche secondo dopo - è ad appena una ventina di metri da quell’angolo sulla strada grande in cui lei sta seduta, ma lei non lo sa. Mi viene da pensare che abbia l’ordine di non muoversi da quell’angolo neanche per fare per pipì, che a San Berillo non ci abiti, che sia solo il suo luogo di lavoro. Ma, chissà com’è, per quanto mi sforzi, non riesco proprio a immaginarla come un’impiegata che arriva a una certa ora, striscia il cartellino, si fa le sue ore di lavoro, alla fine timbra e se ne torna a casa (e chissà se ce l’ha una casa): penso che i suoi aguzzini la caricano, la portano lì e se la riportano via quando ha finito, per non perderne il controllo nemmeno per un  istante. E l’unica immagine che riesco a vedere è quella di un vitello squartato, caricato in spalla da un uomo con le mani insanguinate, depositato sul bancone, fatto a pezzi e, quando non resta più niente, un po’ di  ossa lanciate ai cani. Mentre uno sciacallo diventato statista si avventa sulla carcassa.

martedì 19 giugno 2018

Salvate la soldatessa Elisa

Vi ricordate Veronica Lario, quando – avendo perso tutte le speranze – si rivolse agli amici di Berlusconi chiedendo loro di aiutarlo perché malato? Ecco, non so perché ma oggi mi ha fatto pensare a lei leggere che Elisa Isoardi, fidanzata stiratrice di Matteo Salvini, ha scritto un post su Istagram per chiedere a una certa “madonna dei nodi” di sciogliere i suoi. Lo ha fatto dopo che il ministro delle interiora aveva annunciato un prossimo incontro con il papa, peraltro subito smentito dal Vaticano. Che se non gli ha dato del fanatico, poco c’è mancato.
Anche lei, come Veronica e come milioni di italiani, deve avere pensato: «Quest’uomo è malato». Sicché ha preso dita e tastiera e ha pubblicato questa preghiera sibillina rivolta a quella che chiama “la mamma di tutte le mamme”: «Madre le cui mani lavorano senza sosta per i tuoi figli tanto amati, perché sono spinte dall’amore divino e dall’infinita misericordia che esce dal tuo cuore, volgi verso di me il tuo sguardo pieno di compassione, guarda il cumulo di ‘nodi' che soffocano la mia vita. Tu conosci la mia disperazione e il mio dolore. Sai quanto mi paralizzano questi nodi e li ripongo tutti nelle tue mani».
Ora, forse Isoardi non si è resa conto, ma si ha la sensazione che il nodo di cui parla e che non riesce a sciogliere sia quello che la lega a un uomo cattivo e frustrato, violento, malato di protagonismo, che pur di emergere manderebbe davanti al plotone di esecuzione la propria madre e che non esita a fare retorica sui propri figli e sul suo essere padre (che poi, a dirla tutta, non è che per essere padre ci voglia molto: bastano una bottarella e un preservativo rotto). E dunque qualcuno dovrebbe spiegarle che la madonna ha già i suoi cazzi, con quel suo figlio “buonista” che se la fa con tutti e se lo sa Salvini sai come s’incazza, e che a sciogliere i propri nodi – se anche fossero quelli del filo del ferro da stiro – ci deve pensare da sola. Magari, visto che ormai è anche esperta di cucina, preparando per il suo fidanzato qualche pietanza che lo costringa a stare sul cesso e lontano dalla tv per molti giorni. O magari facendo come Melania, che quanto a maschi stronzi non scherza neppure lei, dichiarando la propria contrarietà alle politiche fasciste del marito.
Faccia il primo passo e noi – donne, rom, neri, migranti, ebrei, omosessuali, meridionali, comunisti… - saremo tutti con lei. Al grido di «Salvate la soldatessa Elisa». Prima che muoiano tutti, in questa assurda guerra contro l’umanità.

venerdì 15 giugno 2018

Vandeani da tastiera

Io li conosco alcuni di quelli che hanno votato 5Stelle e ora sono strenui sostenitori del governo Salvini (sì, governo Salvini, avete letto bene). 
Alcuni li ho conosciuti personalmente: erano quelli che un giorno bussavano alla sede di un partito comunista, e prendevano la tessera, presentandosi come vittime di soprusi con lo scopo di vedere tutelato qualche tornaconto individuale. Insomma, per capirci, pensate a un impiegato pubblico che timbrava e andava via per andare a curare i propri privatissimi interessi. Di quelli che quando venivano licenziati si ergevano a perseguitati politici mentre curavano la loro azienducola evadendo le tasse e sfruttando i dipendenti. E quando capivano che dalla loro scelta politica opportunistica non potevano cavare un ragno dal buco, diventavano più barricaderi del barricadero. 
Perseguitati politici perché devono pagare le tasse grazie alle quali se finiranno in ospedale troveranno un medico a curarli; perseguitati politici perché qualcuno gli ha fatto notare che se hai un impiego pubblico è là che devi stare a lavorare; perseguitati politici perché un dipendente della sua azienda sfruttato sottopagato e licenziato gli ha fatto la vertenza. Il mondo all’incontrario. A un certo punto il sedicente perseguitato politico comincia a odiare, vede nemici dappertutto. Lo incontri un giorno, scambi due chiacchiere e all’improvviso gli vedi gli occhi iniettati di sangue perché si è avvicinato un ragazzo dalla pelle scura che cerca di sopravvivere vendendo piccoli oggetti di artigianato. Non ha dubbi il perseguitato politico: è tutta colpa di quel ragazzo. È colpa di quel ragazzo se lui deve pagare le tasse, è colpa di quel ragazzo se i suoi figli non trovano lavoro, è colpa di quel ragazzo persino se le strade sono dissestate o se piove e lui è uscito senza ombrello. In Sicilia si chiama «muru vasciu», ringhi contro uno più debole perché non hai abbastanza coglioni per prendertela con chi ha creato questo sistema o per ammettere che il sistema sei tu stesso, che tu sei uno di quelli che cercano le raccomandazioni e se non ottengono quello che speravano si trasformano in oppositori. Ma non sono rivoluzionari: sono vandeani. Sicché il perseguitato politico intravvede come unica àncora di salvezza altri che come lui vedono nemici dappertutto. O, meglio, altri che fingono di vedere nemici dappertutto perché è il solo modo per reclutare adepti per la loro setta. Si incontrano in rete, si caricano a vicenda, ciascuno fomenta l’odio, incita gli evasori di tutto il mondo a fare fronte contro lo Stato cattivo, convoca rivolte contro i vaccini, vede complotti dappertutto. Chi spara più cazzate sul sacro blog ha un’ottima chance di scalare i vertici del movimento, addirittura di essere eletto o di governare il Paese. E, una volta raggiunto l’obiettivo, di farsi da solo – come in un self-service della corruzione - quei favori che da nessuno era riuscito a ottenere: un appalto qua, una mazzetta là, un posto di lavoro per tuo figlio. 
È il risultato del reclutamento di attivisti e candidati attraverso un click, senza averli mai visti in faccia, averli guardati negli occhi, sentito la loro voce. Ma c’è un problema: se la selezione avviene come in un sito di incontri erotici e tutto si risolve – absit iniuria verbis – in un cazzo e una fica, cioè in tutto ciò che può stare all’interno di una quindicina di pollici dello schermo di un computer, non puoi sapere se i legittimi proprietari dei due organi citati sono delle persone di cui puoi fidarti, con un cuore e un cervello.
A scopare siamo bravi tutti: è fare l’amore che richiede impegno. 

venerdì 20 aprile 2018

Solo come un cane

Io lo so cosa si prova quando qualcuno fa male al tuo cane. Ho visto con i miei occhi – restando paralizzata e impotente - un uomo col bastone spezzare la zampetta di un cucciolo che gli ronzava intorno perché voleva giocare. Ho sentito quella bastonata fratturare anche le mie ossa, una per una; ho sentito il suo guaito e il mio. Sento ancora quel dolore, ogni volta che ci ripenso, ogni volta che un uomo mette in atto una vendetta trasversale nei confronti di una donna che odia costringendo un bambino ad assistere alla violenza o facendo del male all’unico punto fermo di quel bambino – cane, gatto o pappagallo che sia -, l’unico rifugio e l’unica fonte di affetto in quell’inferno che si ostinano a chiamare famiglia. 
Lo so talmente che vorrei avere davanti la faccia di merda che ieri a Roma, durante una lite furiosa con la moglie, ha strappato dalle braccia del figlio adolescente il suo cagnolino e lo ha lanciato dal settimo piano. Lo vorrei avere davanti non per sputargli in faccia o restituirgli la violenza – come pure istintivamente si sarebbe portati a fare -; del resto, lo hanno già arrestato e spero che chi lo deve giudicare terrà conto anche del fatto che dal 2005 è sancito, in tema di “violenza assistita“, che gli animali domestici sono figure di riferimento dei bambini e ragazzini. E che il dolore di un ragazzino e lo sconcerto di chi ha assistito alla scena non è «una pagliacciata», come ha detto l’assassino. Io quello lì lo vorrei guardare in faccia per fargli un quadro rapido dei sentimenti che proveranno verso di lui coloro ai quali ha fatto del male e di come sarà la sua vita.
A prescindere dal carcere, perché dal carcere – che è già una cosa terribile - prima o poi uscirà. Ed entrerà in un altro carcere: quello dei vicini (che infatti ieri lo volevano linciare) che lo disprezzeranno, dei familiari che tremeranno al pensiero di vederlo spuntare, di una madre che forse si vergognerà di lui, di una moglie che non vorrà più saperne perché avrebbe preferito essere ammazzata lei pur di non vedere soffrire il figlio, di un figlio che non vorrà incontrarlo mai più, nemmeno quando sarà vecchio e malato e avrà bisogno di assistenza e invece morirà solo, e glielo auguro di tutto cuore: solo come un cane.
Con la differenza che un cane, quel cane che lui vigliaccamente ha ucciso facendolo precipitare per 21 metri, dà affetto e quindi riceve affetto. Un cane non muore solo, un uomo malvagio invece sì. 

sabato 7 aprile 2018

Vita virtuale, morte reale

Che cosa assurda morire a trent’anni o poco più. Ma Lara non aveva trent’anni e non si chiamava nemmeno Lara.
Lara Mattei, così la conoscevamo tutti, un personaggio dei fumetti, l’alter ego proletario di Jessica Rabbit, una pagina piena di bandiere rosse, una nostalgia struggente per un capo politico evaporato. Intelligente, arguta, ironica. Lara Mattei, così la conoscevamo tutti, ma nessuno di noi la conosceva. Nessuno dei suoi “amici” (e per di più compagni) di Facebook sapeva che faccia avesse, alcuni convinti che quello fosse il suo vero nome, molti consapevoli che quello fosse un nick, quasi tutti impegnati a cercare di scoprire chi si celasse sotto quel nome e quell’improbabile foto da avatar. Non era un troll Lara: era una che esprimeva pensieri, interloquiva in maniera decisa e consapevole ma mai insultante o provocatoria, interagiva: la sentivi davvero amica, e per di più compagna.
Una volta Facebook mi segnalò che era il suo compleanno. Le mandai un messaggio d’auguri, aggiungendo «chiunque tu sia»: un po’ per precisare che, malgrado io odi l’anonimato, mi faceva piacere interloquire con lei/lui/loro/boh? E un po’ per ricordare a me stessa che io sono quella che crede solo a quello che vede e che forse non avrei dovuto essere lì a perdere tempo con una specie di fantasma.
A un certo punto Lara è sparita, ho pensato a una delle pause che di tanto in tanto ciascuno di noi si prende da Fb. Ieri abbiamo scoperto che Lara non si chiamava Lara (anche se questo già era chiaro a tutti), che non aveva poco più di trent’anni ma forse il doppio (sempre troppo pochi per andarsene) e che è morta da ben tre mesi. Come trovarsi in un salone delle feste pieno di gente che si diverte e all’improvviso scoprire il corpo senza vita di uno dei presenti, senza che nessuno se ne sia accorto, senza che nessuno abbia capito cosa stava succedendo.
In questo caso qualcuno che aveva notato qualcosa di strano c’era: dalla sua bacheca ho scoperto che in tanti la cercavano, che c’era chi aveva scritto ai suoi amici con lo stesso “cognome” nella speranza che fossero parenti a cui chiedere notizie, oppure cercando un marito che forse non esisteva, e chi si era rivolto persino a Chi l’ha visto?, che però non aveva potuto fare niente perché cercare qualcuno senza nome e senza volto è impossibile.
Lara è passata dalla vita virtuale alla morte reale senza un lamento, senza riempire Facebook di post lacrimosi o richieste di aiuto (io non so se ne sarei capace), forse non sapremo mai cosa le è successo, ma quella sua bacheca ancora attiva – come quelle di tanti altri che se ne sono andati nel tempo e di cui il social ci ricorda ogni anno il compleanno, rinnovando il dolore – ci deve far riflettere su quanto sia reale la vita virtuale e virtuale la morte reale. E sullo smarrimento che ci dà questo mondo né virtuale né reale, dove le battaglie, gli amori, gli scazzi, i corteggiamenti li facciamo in rete ma al momento di fare i conti con il mondo la gran parte di noi è solo un personaggio di un videogioco.

A Lara, o chiunque lei fosse, piacevano i miei post e i pezzi che scrivevo su questo blog, e spesso li condivideva, ma questo non potrà leggerlo né condividerlo. Perché la morte è una cosa maledettamente reale.

domenica 25 marzo 2018

Chiedo scusa se parlo di me (sarà perché piove)

È passato a salutarmi Federico. Ero andata nella mia casa da adolescente. Abbandonata, i muri scrostati, la carta da parati a brandelli, non un mobile, non un quadro alle pareti, vuota. Ho aperto le imposte, ho tirato su le serrande e si è riempita di sole. Poi dal balcone è entrato lui, mbrau, si è strusciato contro le mie gambe facendo le fusa ed è andato via di nuovo. Strano, aveva un collarino e un guinzaglio rossi. Io non lo tenevo al guinzaglio.
Forse voleva dirmi che da lì dov’era lo tenevano legato e non poteva tornare. Forse voleva dirmi che avrei fatto bene a tenerlo al guinzaglio, quando dalla nostra casa ci siamo trasferiti in un’altra dove persone e animali esistevano solo perché “servivano” a qualcosa e i gatti per alcuni servono solo a prendere i topi. Quindi è naturale che stiano fuori, anche a costo di essere ridotti a purea dalle macchine che passano a velocità, tanto poi ne prendi un altro, e un altro e un altro ancora – come fosse un frigorifero o un frullatore -, purché faccia il proprio dovere, purché assolva al compito di catturare i topi.
Sono passati più di quarant’anni. L’anno non lo ricordo con esattezza, forse era il 1976 o forse il 1977, ma il giorno sì. E chi se lo scorda? 5 maggio: Ei fu. Siccome immobile, spiaccicato. Sì, lo so, nel frattempo sarebbe morto comunque, un gatto non dura più di vent’anni, ma fa male lo stesso. E oggi che dal cielo cadono lacrime grosse come polpette fa ancora più male.

Chissà perché di tanto in tanto quelli che non ci sono più passano a salutarti quando meno te lo aspetti: forse perché c’è un anniversario in vista che fa un male cane, forse perché hanno paura che ti dimentichi di loro, forse per dirti che loro non si sono dimenticati di te. Forse perché vogliono dirti che lo sanno bene che non li hai dimenticati. E sanno pure che hai un gran bisogno di loro, ma non possono tornare, anche se dal cielo cadono lacrime grosse come polpette.