mercoledì 14 novembre 2018

In difesa dell'articolo 21

Io non l’ho postata sui social la foto del mio tesserino professionale. Anzi, mi ha anche dato un po’ fastidio che altri lo abbiano fatto in risposta agli insulti di Di Maio e Di Battista nei confronti dei giornalisti. Perché a me di difendere una corporazione non importa niente, perché so bene che fra i giornalisti ci sono quelli che si prostituiscono e quelli che non si prostituiscono ma è come se lo facessero - dal momento che, per vigliaccheria o per necessità (se ti pagano cinque euro al pezzo, non è facile fare il vendicatore degli oppressi), non sanno dire dei no -; so anche che ci sono quelli servi per vocazione, ma se della categoria fa parte anche uno come Di Maio, con le sue note carenze in grammatica/storia/geografia/democrazia, vuol dire che un problema c’è al momento dell’iscrizione all’ordine. Vuol dire che, se il famoso tesserino ce l’hanno cani e porci, quindi per esempio l’agente Betulla o un tizio che scriveva di calcio dilettantistico su un giornaletto di paese, la categoria - la corporazione, la “casta” come piaceva dire ai grillini prima che diventassero casta anch’essi – ha un problema.
Non l’ho pubblicata quella foto perché farlo sarebbe equivalso a pronunciare la famosa frase quasi sempre detta o pensata da politici di ogni ordine e grado ogni qualvolta pretendono di avere diritto a qualcosa che non gli spetta e che ti vale l’iscrizione d’ufficio all’ordine degli sboroni: la sempreverde «lei non sa chi sono io». 
A me di difendere una categoria non importa niente, in una consapevolezza che non dovrebbe aver bisogno di essere spiegata e cioè che ci sono i giornalisti bravi, quelli asini, quelli coraggiosi, quelli stronzi, quelli senza spina dorsale, così come se parliamo di medici o di magistrati dovrebbe essere scontato che ci sono quelli bravi, quelli asini, quelli coraggiosi, quelli stronzi, quelli senza spina dorsale. 
Il punto, per quanto mi riguarda, è un altro: se difendo i giornalisti lo faccio per difendere il diritto/dovere di informare ed essere informati (legato a doppio filo con l’esercizio della democrazia, e per questo così fastidioso per dittatori, dittatorelli, aspiranti tali e frustrati di ogni risma); se difendo i medici, è per rivendicare il diritto alla salute per tutti; se difendo l’indipendenza della magistratura, mi spinge il desiderio che i magistrati rispondano solo alla legge e non agli ordini di questo o quel politico, a tutela di tutti i cittadini, senza distinzioni e discriminazioni. Cioè quelle cose fondamentali scritte nella Costituzione italiana, su cui hanno giurato ministri e presidenti del consiglio di oggi e di ieri che poi, alla minima critica da parte dei giornalisti, hanno invocato il plotone di esecuzione. E questo, nessuno escluso, passando da Berlusconi e Renzi e la gran parte dei dirigenti dei loro partiti che ora si ergono a difensori della democrazia, prima di arrivare agli improbabili governanti dell’oggi.
Perciò penso che oggi, come ieri e l’altro ieri, più che mostrare la copertina bordeaux con le cifre dorate e pronunciare un ideale «lei non sa chi sono io», sarebbe stato meglio pubblicare la copertina della Costituzione o trascrivere il testo dell’articolo 21. Senza fare troppo gli sboroni.

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