martedì 21 marzo 2017

Libertà e onestà. Ma anche no.

Dunque il Movimento Cinque Stelle è un partito, come da involontaria ammissione del suo capo: «Chi non è d’accordo si faccia un altro partito», aveva risposto Beppe Grillo ai contestatori della defenestrazione della candidata sindaca di Genova.
E c’è stato subito chi lo ha preso in parola, annunciando l’intenzione di fondare un movimento. In passato estimatore e coputtaniere di Silvio Berlusconi, poi estimatore di Renzi, poi estimatore di Grillo, cioè di tre tizi che considerano il partito proprietà privata, Lele Mora oggi ci spiega che in un movimento «non può esistere un padre padrone».
Ergo, appena finirà l’affidamento ai servizi sociali per bancarotta e per la storiaccia di Ruby e le altre, ha confermato quello che in verità già covava e annunciava da tempo: si fa un partito suo.
Programma berlusconiano, da quello che si legge: carne tenera - «Ho voluto tutti giovani a fianco a me, con meno di 40 anni, tutti laureati» - e promesse che il milione di posti di lavoro gli fa un baffo. Cioè? Cioè: «una casa a tutti, da mangiare bene per tutti, una pensione uguale per tutti, di almeno mille euro al mese».
Manca solo cchiù pilu ppi tutti, ma è probabile che l’abbia omesso perché era sottinteso e magari rischiava che Cetto Laqualunque gli facesse causa per plagio, come Al Bano con Michael Jackson.
Giusto per dovere di cronaca: sapete come si chiamerà il movimento del signor Dario Gabriele Mora, in arte Lele, nazista che ha scelto Faccetta nera come suoneria del telefonino, accusato e condannato per spaccio di droga, evasione fiscale (due volte: nel 2000 e nel 2010), bancarotta fraudolenta e favoreggiamento della prostituzione? Si chiamerà “Libertà e onestà”.

In pratica, come se Karl Marx facesse un nuovo partito chiamandolo “in culo agli operai”.

mercoledì 15 marzo 2017

Caporalato erga omnes: la storia di A, nell'Italia dello schiavismo

Statisticamente, è impossibile che sia solo sfiga. Dieci lavori su dieci, venti su venti, se non ti mettono in regola, se ti fanno lavorare a qualunque ora del giorno e della notte, se alla fine non ti pagano, non è sfiga: è sfruttamento.
Se il suo nome cominciasse per A, sarebbe solo l’inizio di un alfabeto infinito di nuovi schiavi che arriva alla Zeta e torna indietro.
“A” è una giovane donna di 32 anni, una laurea in Grafica all’Accademia di Belle arti, che da più di dieci anni – prima da diplomata e poi da laureata - riceve sempre lo stesso trattamento, con piccole variazioni sul tema.
Il primo, subito dopo il diploma, è stato un fotografo: le faceva fare di tutto, dai fotoritocchi alle fotocopie, per dieci euro a settimana e poi non glieli ha dati nemmeno tutti. «Volevo lavorare, fare esperienza», racconta. E lui naturalmente se ne approfittava.
Poi c’è stata un’agenzia che circa sette anni fa cercava tirocinanti con un annuncio su Internet: un mese di prova, rimborsi spese e poi l’assunzione. Il mese è finito ma non si sono visti né i soldi né il contratto. In compenso quell’annuncio continua a girare in rete: c’è da giurare che da sette anni quell’agenzia continui a fare profitti sulla pelle di tirocinanti sfruttati per un mese e mandati via senza nemmeno un grazie.
Dopo è stata la volta di una tipografia: tirocinio di un mese e poi via, senza nemmeno il rimborso spese.
Non è mancato il vecchio bavoso che parlava di porcherie e pretendeva che lei si sedesse sulle sue gambe: «Ovviamente non lo facevo – ricorda -, mi faceva schifo, ma ero piccola e non sapevo che avrei potuto denunciarlo. Ho una rabbia se ci ripenso. Non so se sia ancora vivo, ma se lo fosse ci sarebbe da sputtanarlo».
Alla fine è arrivato il giovane imprenditore, aspirante consulente aziendale: «Gli faccio vedere i miei lavori. Belli, molto belli, mi dice, complimenti». Dunque? Dunque lavoro nero. Cinque ne assume con questo sistema: due grafiche, due addette al marketing e uno sviluppatore di siti web. Un lavoro colossale per un albergo con ristorante e Spa. Dovevano fare tutto in un mese: bigliettini da visita, numeri delle stanze, cartelli con la scritta “non disturbare”, volantini, menu, brochure, fino ai 6x3. Seicentocinquanta euro al mese e la prospettiva di altri lavori, almeno sulla carta. Ma la carta non c’era, perché non c’è mai stato nessun contratto. E non c’è stata nemmeno la cartamoneta. Le telefonate anche in piena notte perché dovevano essere a disposizione a qualunque ora, gli insulti, gli urli, gli atti di prepotenza e di maleducazione invece c’erano tutti: «Una volta – ricorda – c’è stato un problema con lo stampatore e si doveva rifare una cosa. Io non ero a casa e lui mi ha fatto duecento fra telefonate e sms. Sono andata nel panico totale». Superfluo dire che, il giorno in cui lei ha fatto le proprie rimostranze, lui non ci ha pensato un attimo a mandarla via e, dopo aver trovato da ridire persino sul suo modo di vestirsi, a distanza di quasi un anno non le ha ancora pagato il lavoro.
Funziona così nell’Italia dello schiavismo. Ed è inutile che il bullo e la sua gang ci raccontino la favoletta dell’abolizione della lettera di dimissioni in bianco o del caporalato in agricoltura, quando il jobs act ha cancellato tutti i diritti dei lavoratori ed eliminato ogni ostacolo all’esercizio dell’odio di classe da parte dei cosiddetti datori di lavoro. Il caporalato ormai è in tutti i settori, che tu sia un’astrofisica o un bracciante: è un caporalato erga omnes. Con la differenza che ad esercitarlo non è più soltanto un “mediatore”, ma direttamente il padrone mandante e beneficiario delle leggi renziane.

No,  non è solo sfiga: è delinquenza politica e datoriale.

* Questa storia è arrivata a me grazie al lavoro dello Sportello di autodifesa precaria del Centro sociale Officina Rebelde di Catania.

lunedì 6 marzo 2017

Regressione nella cacca

Ora è ufficiale: il cosiddetto mondo civilizzato è diventato cretino. Io un sospetto già ce l’avevo, perché gente che si fa vendere di tutto e si indebita per farsi vendere di tutto, e soprattutto roba di cui non avrebbe affatto bisogno se non fosse indotto; gente che svende il proprio cervello al profitto, senza ricevere in cambio null’altro che la propria sudditanza, qualche problema di quoziente intellettivo già doveva averlo. Ma ora siamo al punto di non ritorno, alla fase di regressione nella cacca. Costosa, ma pur sempre cacca che si sta spalmando sulla Penisola: metafora della regressione politica e culturale di un intero Paese.
È già successo a Roma e Milano, fra poco succederà a Verona: aprono gli asili nido per adulti. Alla modica cifra giornaliera di 35 euro, che diventano 55 se non ti porti l’occorrente da casa, il coglione di turno – e una riflessione sul fatto che a quanto pare si tratta di imprenditori e manager la farei – si infilerà in bocca un ciuccio, berrà il latte dal biberon, sarà coccolato, si sentirà raccontare una fiaba, dormirà in una culla e indosserà un pannolino che al momento giusto gli verrà amorevolmente cambiato dalla maestra.
E lo so cosa state pensando. Invece no: la Ab Nursery, associazione che fornisce cura e servizi per gli “Adult Babies” (i coglioni di cui sopra), assicura che il titillamento non è previsto. Per l’esattezza, chiariscono che «Durante il cambio del pannolino non ci sarà contatto con le parti genitali». Dunque gli mettono il pannolino pulito senza averli prima lavati? Dunque niente cremina per i culetti arrossati? Dunque niente diluvio di Borotalco sulle palle? No, niente. E che credete? È un’associazione seria! Talmente seria da tenere alla reputazione propria e dei suoi clienti: le regole della struttura prevedono infatti che il regrediente «venga vestito da adulto ed esca vestito da adulto, onde evitare indiscrezioni nel vicinato, che potrebbero nuocere te (sic!) e l’asilo stesso». Più di così? Cioè vi travestite da neonati senza che sia carnevale e poi vi preoccupate che i vicini possano prendervi per il culo?
La tragedia è che l’iniziativa sta riscuotendo successo: l’asilo di Verona aprirà il 19 marzo e già non ci sono più posti. Per iscriversi bisognerà aspettare la prossima data: il 14 maggio.
Nell’attesa però potreste farvi vedere: ma da uno bravo bravo bravo. Anche se sono certa che persino Freud, dopo una prova del genere, lo ritroveremmo a ciucciarsi il pollice e a ravanare nella cacca.