mercoledì 4 gennaio 2012

Lettera di un carcerato a Lele Mora

Caro Lele,
ho sentito le tue parole disperate, il tuo grido d'allarme, il tuo "non ce la faccio più" e non ho saputo resistere all'umana tentazione di solidarizzare con te, di scriverti qualche parola di conforto, di farti sapere che c'è chi ti capisce.
Anch'io sono carcerato, in isolamento da anni, senza nemmeno compagni di cella con cui scambiare due parole, e quindi posso capire il tuo sconforto. Ero giovane quando sono entrato qui dentro e ci sono diventato vecchio, non ho potuto festeggiare il compleanno dei miei figli, loro sono cresciuti e io non me ne sono accorto, la più piccola ha finito il liceo e non so più nemmeno che faccia abbia, non riesco a immaginare come sia cambiata da quando l'ho vista l'ultima volta poco più che bambina, non ho più assolto ai miei doveri/piaceri coniugali e quelle rare volte che vedo mia moglie non posso neppure allungare una mano per farle una carezza. Qui, fra queste quattro mura, è sempre buio; questa è una cella senza finestre, neanche una piccolissima apertura di quelle con le grate che si vedevano nei film anche se non lo so più cosa si vede nei film perché al cinema non ci posso andare e nemmeno a prendere una pizza con gli amici. Ci sono delle mattine che non ho voglia di alzarmi, del resto qui non è mai mattina ed è sempre notte fonda. E non so più se abbia un senso pensare di uscire da qui un giorno, ora che mia moglie mi ha lasciato e i miei figli sono andati all'estero dopo che questo Paese è stato ridotto a un puttanaio da un vecchio porco che, mi dicono, tu conosci bene.
Sai, una volta anch'io ho tentato il suicidio con un metodo simile al tuo, ma purtroppo ho fallito: mi ero tappato il buco del culo con un tappo di champagne pensando che, nel momento in cui si fosse presentato il bisogno, sarei esploso in mille pezzi. Ma avevo fatto male i conti: non mangiavo da giorni e quindi non c'era niente da cacare.
Ecco, però, vedi, io ti devo ringraziare, perché io non sono un carcerato vero: anch'io non faccio un cazzo come te dalla mattina alla sera, ma sono un disoccupato di lunga durata e la mia cella, la mia prigione, non è fatta di cemento ma è nel mio cervello. Però ti devo ringraziare, perché mi hai fatto venire voglia di uscire da qui: per sputare su quella tua faccia di merda.

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