Quand’ero piccola, nelle nostre famiglie borghesi e con la puzza sotto il naso, con i bambini non si parlava in dialetto. I grandi magari fra di loro, soprattutto quando erano in cucina a perpetuare una tradizione secolare, con gli stessi gesti e gli stessi ingredienti, usavano il dialetto, il registro linguistico della familiarità, ma davanti a noi abbassavano la voce e a noi si rivolgevano in italiano. Anzi (e la cosa mi faceva molto ridere), c’era una vecchia zia, abituata a parlare in dialetto, che usava l’italiano per parlare con noi bambini e con i gatti. Con i nostri, però: con i suoi e quando era a casa sua, nel suo paese, parlava in dialetto. Gatti (e bimbi) da compagnia quelli di città; gatti lavoratori i suoi, che servivano a cacciare i topi.
In fondo erano passati pochi anni dalla fine della guerra e forse quel bisogno di italiano era – soprattutto per i siciliani – un bisogno di riscatto, di darsi una possibilità, di sentirsi italiani come gli altri italiani che continuavano ad emarginare i nostri conterranei, i “terroni”, al solo sentirne l’accento ed era anche però un sentimento vero di italianità che in quel momento coincideva pure con il ruolo unificatore e didattico (dal maestro Manzi ai grandi sceneggiati dei capolavori della letteratura) detenuto dalla televisione.
Io il dialetto lo ascoltavo (non dico che fosse severamente vietato parlarlo, ma non c’è dubbio che fosse quasi un tabù), ma iniziai a usarlo soltanto nell’adolescenza, cominciando a fare politica, andando nei quartieri popolari a parlare con le donne e recandomi nelle fabbriche a parlare con gli operai: stavo – e sono sempre stata - dalla parte loro, dalla parte delle donne e dalla parte dei lavoratori, dalla parte di quelli che non avevano avuto la fortuna di studiare, volevo essere come loro, volevo entrare nella loro pelle, volevo che non mi vedessero come un corpo estraneo, e – lo confesso – il dialetto mi piace da morire, trovo che alcune espressioni del siciliano siano geniali e altre di una poeticità che non basta un vocabolario intero a tradurle in italiano e soprattutto a trasmettere la stessa vibrazione. Vi faccio un esempio, il primo che mi viene in mente e che mi dà un’emozione impagabile: aiu na addinedda nto cori. Ho una gallinella nel cuore. Sta a indicare, appunto, un’emozione, l’ansia, il cuore che ti batte forte e lo stomaco in subbuglio per un esame importante all’università, per un incontro con il tuo grande amore, per l’attesa di un risultato elettorale che premierà un tuo compagno di partito (un’èra geologica fa, quando i comunisti erano in Parlamento e quando il Parlamento era ancora un’istituzione rispettabile). La senti la gallinella che starnazza saltando qua e là sul tuo cuore e invadendoti il petto, senti le sue ali che sbattono dentro di te, ma non la puoi tradurre quella frase e, se non avete mai provato quella sensazione, potrei rimanere ore ad aggiungere vocaboli su vocaboli senza riuscire a spiegarvi di che si tratta.
Io con mio figlio, per consuetudine familiare, ho sempre parlato in italiano, ma non gli ho mai lesinato il dialetto. Il siciliano mi piace (come mi piacciono tutti gli altri dialetti e mi piace moltissimo ascoltarli, impararne le espressioni, scoprire con il mio similitudini e differenze), ma mi sembra assolutamente demenziale questo disegno di legge presentato all’Assemblea regionale siciliana dal leghista de noantri Nicola D’Agostino, esponente – ça va sans dire – dell’Mpa dello sgovernatore Raffaele Lombardo, e approvato all’unanimità dalla Commissione Cultura del cosiddetto “parlamento” siciliano popolata da personaggi di destra che, seguendo il principio dei vasi comunicanti, vengono eletti nel Pdl e passano all’Mpa; si candidano con l’Mpa e si ritrovano ai Popolari Italia domani; stanno in lista nel partito di Berlusconi e si trasformano in Futuro e Libertà o Forza del Sud; si fanno eleggere spacciandosi per centrosinistra e kafkianamente si tramutano nello scarafaggio autonomista senza nemmeno necessità di cambiare sigla (Pd si presta benissimo ad aggiungere qualunque lettera: Pds, partito dei servi; Pdz, partito degli zerbini; Pdr, partito dei rinnegati, Pdp, partito dei parassiti…et coetera pantoufle); qualcuno addirittura eletto con Lombardo si iscrive al gruppo “Udc verso il partito della Nazione”, fascistissimamente con la N maiuscola, e intanto vota “all’unanimità” per l’insegnamento della “lingua siciliana”, ulteriore passo verso lo sbrindellamento della nazione. Tutti fungibili, comunque. E tutti insieme appassionatamente a sancire il nostro isolamento, con la benedizione del separatista Lombardo, campione di clientele e frequentatore-di-boss-ma-solo-per-ragioni-politiche (nel senso dei pacchetti di voti) e dell’assessore regionale all’Istruzione, Mario Centorrino, esponente del Pds-Pdz-Pdr-Pdp, che invece di occuparsi dei gravissimi tagli della Gelmini che colpiranno in maniera particolare la Sicilia, per lodare il ddl D’Agostino si profonde in una serie di cazzate e parole vuote che val la pena di riportare per rendersi conto da soli. Intanto il disegno di legge viene definito “opportuno e tempestivo”, chissà perché e “tempestivo” rispetto a che. Gli scappava? Non c’erano altre priorità? Che so, per esempio, creare posti di lavoro e fare di tutto perché non lo perdano gli operai della Fiat di Termini Imerese. Boh! E poi sentite questo capolavoro di aria fritta: “si viene così a realizzare, sotto un profilo legislativo, uno dei punti programmatici della politica scolastica di questo assessorato nel contesto dell’azione riformatrice del governo Lombardo. Il modulo D’Agostino, infatti, non riguarda, se non all’interno di una narrazione più complessa, l’insegnamento del dialetto, ma piuttosto quello della storia della Sicilia, della sua letteratura, della sua lingua. Inoltre sarà presto integrato dalla proposta di altri moduli didattici così da completare il ‘pacchetto’ affidato dalla legge Moratti sull’autonomia della Regione”. E figurati se mancava la “narrazione”, termine di moda che piace tanto e che significa solo che ci stanno prendendo per il culo. Però intanto ci raccontano le favole, così non ce ne accorgiamo.
Ora, io per esempio è proprio all’assessore Centorrino che vorrei ricordare come di solito per lingua si intenda quella di un Paese intero (e, anzi, secondo qualcuno “una lingua è un dialetto con un esercito e una marina militare”; a meno che non sia proprio a questo che mira lo sgovernatore della Sicilia: tanto qui i mitra – con i quali Lombardo avrebbe voluto accogliere gli immigrati – e i kalashnikov ci sono già) mentre il termine dialetto è circoscritto a una regione. Ed è proprio all’assessore Centorrino che vorrei chiedere come intendano organizzarsi, a chi intendano affidare l’insegnamento dato che gli insegnanti li stanno mandando tutti a casa. Che fanno, licenziano gli insegnanti di sostegno per i ragazzini disabili e trovano i soldi per pagare quelli che insegneranno il dialetto? O forse licenziano quelli di Inglese (visto che sembra che l’analfabeta alla guida del Ministero dell’Istruzione si stia accanendo proprio su questi ultimi), che è meno piacevole ma più utile del siciliano per farsi capire nel mondo. Oppure l’idea è quella di affidare la formazione ai tanti enti fabbrica-voti. Mi aspetto di vedere spuntare come funghi nuovi enti di formazione e vedere affissi sui muri i loro manifesti: “Associazione culturale coppola e marranzano: corso per 15 insegnanti di dialetto siciliano – variante palermitana –, interamente finanziato dalla Regione, docenti madrelingua, sbocco professionale immediato...”. Ripetuto per la variante catanese, quella del centro dell’Isola, la messinese e così via.
E poi, sempre a Centorrino e al fiero Lombardo – che parla di “tesoro inestimabile da salvaguardare” ma non sembra preoccuparsi dell’abusivismo edilizio nelle zone archeologiche o della cementificazione delle coste -, vorrei chiedere: ma ci vanno in giro fra la gente, lo sentono come parlano i ragazzini, li leggono i giornali, qualcuno gliele riferisce le notizie di agenzia? No, perché, se non lo sapessero, li informo che qualche mese fa la Commissione europea ci ha comunicato che oltre il 34% dei quindicenni siciliani (dato che sale al 43, se si parla solo dei maschi) è semianalfabeta, non è capace di leggere e di capire quello che legge. E non è colpa degli insegnanti, che combattono e fanno i salti mortali fra un futuro da precari e il senso di impotenza che li pervade di fronte a questi ragazzi vittime di una politica che li vuole acquirenti dei centri commerciali e degli outlet perché se non sei griffato non sei, disposti a tutto tranne che a studiare, e di una televisione – strumento di quella politica – che ha capovolto il suo ruolo originario divenendo diseducatrice e artefice dell’impoverimento linguistico con conseguente riduzione del numero di parole conosciute (per non parlare dei tempi verbali) a occhio e croce a un massimo di trecento, forse meno. Ricordate Dario Fo? “L’operaio conosce trecento parole, il padrone mille per questo lui è il padrone”. E per questo il padrone continuerà a fare in modo che l’operaio continui a conoscere sempre e soltanto un massimo di trecento parole. Li informo anche, i due entusiasti, che da qualche tempo i giovani – non solo i cervelli – hanno ripreso ad emigrare dalla Sicilia e se non sanno nemmeno l’italiano (e la storia) il destino che li aspetta è ancora una volta il lavoro nelle miniere del Belgio. Oppure un vestito gessato e un paio di scarpe con le ghette. Rientrando in Italia, potranno così assicurare ai loro figli un posto nell’esercito siciliano: i mitra li fornisce Lombardo.
Per finire: nella sua relazione sul ddl il “deputato proponente” D’Agostino spiega che l’obiettivo è di “ridare dignità alla Sicilia ed ai siciliani”. Non ho nemmeno voglia di commentare, anche perché mi ripeterei. Comunque, la dignità, per esempio, è accedere a un posto di lavoro per concorso dopo aver studiato e non per raccomandazione o per clientela. Comincino da questo – eliminando il problema alla radice e cioè togliendosi dai coglioni – Lombardo e il suo esercito mercenario di indipendentisti, separatisti, autonomisti, centristi, destri e fintisinistri che costruiscono le loro fortune politiche sulla disperazione della gente, elargendo surrogati di posti di lavoro come favori. Dopo, solo dopo, quando si saranno ripristinate le condizioni minime del vivere civile – il diritto allo studio, il diritto al lavoro, il diritto a una formazione qualificata – potremo permetterci il lusso di affiancare il dialetto siciliano alla lingua italiana.
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