sabato 26 ottobre 2019

Fallimenti

Sembra un enorme groviglio di fallimenti la vicenda dell’omicidio a Roma di un giovane di 24 anni. Come un gomitolo finito fra le grinfie di un gattino giocherellone, e non sai come venirne a capo.
C’è il fallimento di un’intera società se due ragazzi di 21 anni se ne vanno in giro con una P38 convinti di stare dentro un videogioco e mirano alla testa pensando, forse, che la vittima alla scena successiva si sarà già rialzata e il gioco potrà riprendere.
C’è il fallimento di un’intera società e anche della stampa se altri due – un ragazzo e una ragazza, la vittima e la “sua” ragazza - se ne vanno in giro con duemila euro in mazzette da venti e cinquanta euro in uno zainetto per comprare una partita di droga e lei, insieme a un avvocato e ai giornali che fanno da megafono, può inventarsi la storia del bravo ragazzo che non fa uso di stupefacenti (e che anzi si trova davanti a un pub per tenere d’occhio il fratellino) ucciso come un cavaliere d’altri tempi per proteggere dai malintenzionati la pulzella indifesa.
C’è il fallimento dello Stato se un poliziotto di esperienza come Antonio Del Greco, che ha indagato sulla banda della Magliana, dice delle cose che possono risultare pericolosissime. L’ho letta e riletta l’intervista rilasciata a Carlo Bonini di Repubblica, perché c’è un passaggio che trovo inquietante e non credevo ai miei occhi. Speravo di avere capito male, continuo a sperarlo. Del Greco parlava di quello che chiama «il grande disordine» in contrapposizione all’ordine dei decenni passati: un «doppio, capillare controllo», quello garantito dallo Stato, dalle forze di polizia, e quello in mano alla criminalità organizzata, l’altro Stato. È un fallimento se un poliziotto pronuncia parole che possono essere interpretate come rimpianto: «Noi sapevamo a quali porte bussare dopo una rapina, dopo una rissa, dopo una morte per overdose. E dall’altra parte avevamo chi, a sua volta, aveva interesse a che la strada non fosse lasciata in balia di ragazzini fuori di testa».
C’è il fallimento (ma anche il grande coraggio e lo strazio di riconoscerlo) di una madre, che sa di non essere riuscita a seguire il proprio figlio come avrebbe dovuto e sceglie di andare a denunciare il ragazzo e, con lui, la propria stessa incapacità. Sembra che la mamma del giovane assassino, presentandosi in commissariato, abbia detto: «Temo che mio figlio abbia fatto una cazzata». E c’è un contrasto stridente come un gessetto sulla lavagna fra la prima e l’ultima parola di questa frase, fra quelle prime due sillabe – temo –, timide e timorose, e la durezza rabbiosa di quelle due zeta che solitamente si nascondono dietro due asterischi per ipocrisia e falso pudore.
C’è infine persino il fallimento della vittima, «uno sportivo» secondo un collega della palestra in cui faceva il personal trainer (come se essere uno sportivo fosse a prescindere garanzia assoluta), che invece non soltanto evidentemente si accompagnava a gente poco raccomandabile, ma non disdegnava di pubblicare sulla sua pagina Facebook i post razzisti dell’assassino di umanità Matteo Salvini: Luca Sacchi non è stato ammazzato dai “negri” che odiava tanto, ma da due bianchi esattamente come lui.    
Bisognerà cercare di districarla tutti insieme questa matassa di fallimenti, individuare il bandolo e tentare di riavvolgerla, lentamente, sciogliendo i nodi. Ammesso che non sia troppo tardi; ammesso che a imbrogliarla non sia stato un gattino giocherellone, ma una belva impazzita. E in questo caso l’unica soluzione è buttarla via questa matassa che è il nostro paese, portare i libri contabili in tribunale, chiudere per fallimento.

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