Arriva il momento che non ce la fai più. Non ce la fai, di nuovo, come in un film già visto, a rientrare nella routine dell’inutilità, a farti stritolare dalla spirale dell’incertezza, ad alzarti la mattina e chiederti perché ti sei alzato. Perdere il lavoro due volte in pochi anni, quando di anni ne hai già cinquanta ti fa sbroccare, perché stavolta è per sempre. La prima volta hai resistito, hai afferrato con le unghie ogni spiraglio di luce (la nuova azienda che sta per aprire, le riunioni interminabili in prefettura e gli accordi siglati, una promessa elettorale…) e lo hai spalancato come una finestra: figli, genitori, mogli, mariti, gatti, cani, era per loro che dovevi andare avanti perché loro forse di te in realtà non avevano bisogno, ma tu di loro sì, per giustificare quell’alzarsi la mattina. Poi, forse, cominci a vederli come un fastidio, un ostacolo al tuo bisogno di farla finita, alla tua necessità – una volta tanto – di essere egoista.
Dev’essere successo questo ad Antonio Lanza, l’ex operaio della Cesame licenziato con altri 130 in seguito al fallimento dell’azienda di sanitari e “riassorbito” un anno e mezzo fa - dopo anni di disoccupazione, prese in giro e protocolli d’intesa disattesi - alla Pubbliservizi, la società partecipata della Provincia di Catania che si occupa della pulizia di scuole e giardini.
Al centro (per quanto marginalmente, come precisano tutti) di un’indagine interna per un furto avvenuto in azienda e sospeso proprio per i sospetti che gravavano su di lui e su altri compagni di lavoro, appena ricevuta la notifica della sospensione Lanza si è gettato dalla tromba delle scale uccidendosi.
All’inizio volevano farlo passare per incidente, perché faceva più comodo così e probabilmente perché la moglie escludeva il suicidio. L’ho sentita fare una dichiarazione al tg: mio marito non ci avrebbe lasciati da soli. Certamente prima era così. Poi non ce la fai più: sì, ancora una volta, tua moglie, i tuoi figli, i tuoi genitori, ci pensi e non lo fai, li guardi e non lo fai, vai avanti per loro e però quel pensiero è sempre lì, che ti schiaccia il petto come un’enorme pressa, e il dolore diventa tanto più forte quanto più grande si fa il conflitto fra il tuo bisogno di dire basta una volta per tutte e il tuo senso del dovere verso di loro. E all’improvviso nel tuo cervello esplode qualcosa e loro spariscono: al centro ci sei solo tu, tu e quel dolore che ti toglie il respiro. Prendi la mira e vai, ti lanci nel vuoto.
Ora io non so (né in questo momento mi interessa sapere né tantomeno tocca a me condannare o assolvere, per quanto istintivamente io tenda più a credere ai lavoratori – che chiedevano sicurezza per essere stati minacciati da delinquenti – e per quanto mi sembri davvero strano che uno che ha perduto il lavoro e ha lottato per riconquistarlo, rischi di perderlo per una cazzata) se Antonio Lanza, cinquant’anni, una moglie, quattro figli e persino qualche nipote, fosse sospettabile, dunque “complice” di quel furto o del silenzio su quel furto: quello che so per certo è che complici senza virgolette di quest’omicidio – sì, ho detto omicidio e non suicidio – sono quelli che hanno reso fragile quest’uomo, che ne hanno logorato il cervello con promesse mancate e minacce di licenziamento fino a renderlo sottile come la carta velina e pronto a lacerarsi da un momento all’altro, quelli subito pronti – qualche minuto dopo il lancio nel vuoto – a diffondere il solito comunicato preconfezionato di cordoglio, un “prestampato Buffetti” dell’ipocrisia dove accanto alle parole già scritte in tipografia – “profondo cordoglio”, “solidarietà alla famiglia” – basta aggiungere il nome del morto al posto dei puntini. In attesa di prossime elezioni.
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