Quando vai a un dibattito, a una conferenza stampa, a un convegno, ti aspetti che i "relatori" prendano la parola e non la mollino più, che ciascuno voglia la ribalta tutta per sé e - come spesso accade - si lasci andare a un monologo che ti sfianca.
Era decisamente anomala la conferenza stampa a cui ho assistito io ieri, perché i protagonisti parole non ne avevano. Non ne avevano le mamme di Agata Annino e Agostino Agnone, assassinati dai veleni dell'edificio 12, il laboratorio della facoltà di Farmacia di Catania; non ne aveva Lucio Lanza, che per la stessa ragione - per avere respirato metalli pesanti per anni, tutti i giorni, fino a dieci ore al giorno - ora si sveglia tutte le mattine con la morte appollaiata su una spalla come fosse la scimmietta del circo. Prima laureandi, poi ricercatori, Agata Annino, Agostino Agnone, Lucia Lanza e tutti gli altri, studenti, dipendenti dell'università: un esercito fra quelli che si sono ammalati e quelli che sono morti (almeno una quarantina, fra gli uni e gli altri, e chissà quanti non hanno ancora intuìto o non vogliono intuire il nesso fra la malattia e la permanenza in quel laboratorio), vittime di una strage silenziosa e omertosa, perché tutti o quasi sapevano ma nessuno parlava, nessuno prendeva provvedimenti. Tutti quelli che avrebbero dovuto sentirsi responsabili di quella struttura sapevano che in quel laboratorio si maneggiavano e si respiravano in continuazione agenti cancerogeni eppure non adottavano nessuna misura di sicurezza: lo sapevano perché ne venivano informati e lo dovevano sapere perché era il loro mestiere conoscere gli effetti dei composti chimici. Eppure non la sentivano questa responsabilità. La mamma di Agata Annino, insegnante in un istituto superiore da poco in pensione (la più "loquace" dei tre: ha tenuto il microfono per cinque minuti scarsi), lo ha detto: ragazzi grandi i suoi alunni, però lei la sentiva tutta la responsabilità per quei figli che i genitori le affidavano ogni giorno. "I nostri figli sono da buttare?" E si è presa ancora qualche secondo per spiegare che sua figlia, morta di tumore, in quella trappola ci era stata sei anni, tre per la tesi e tre per il dottorato, dalla mattina fino alle nove di sera, e stava lavorando alla ricerca di un vaccino contro i tumori. Bastano poche parole per lasciarti senza parole e senza fiato.
Poche parole anche dalla mamma di Agostino Agnone, ingegnere elettronico, che là c'era stato dal 1998 al 2006 e, senza che avessero nemmeno il tempo di accorgersene, "è passato dalla salute alla morte". E meno di due minuti ha impiegato Lucio Lanza, per spiegare che da anni convive con un tipo di leucemia che si contrae proprio stando a contatto con quelle sostanze che in quel laboratorio erano nell'aria, venivano sversate nei lavandini come fosse acqua, erano nel sottosuolo e arrivavano nelle falde acquifere. Una leucemia a decorso lento: "speriamo bene", ha concluso. Già, speriamo bene: due parole sole, agghiaccianti, per troncare di netto un discorso. Parole come pietre, macigni che ti schiacciano il petto e ti impediscono di respirare. E, d'altra parte, che vorresti dire? Cosa avrebbero dovuto dire Lucio Lanza e le due mamme? Solo poche parole, glaciali, quasi di circostanza, per nascondere fiumi di lacrime, chilometri di imprecazioni, autostrade di rimpianti, di dolore, di rabbia che non si può sedare di fronte a una strage premeditata. Strage premeditata. Come la vogliamo chiamare, dal momento che - in base alla relazione dei periti nominati dal tribunale, di cui ha letto i passaggi fondamentali l'avvocato Santi Terranova, che fin dal primo momento si è battuto per far venire fuori la verità - c'è stata una grave sottovalutazione del rischio da parte dell'università? Per chi avrebbe dovuto vigilare e tutelare la salute di chi là ci andava a studiare o a lavorare si trattava solo di un rischio moderato e invece il sito era chiaramente inquinato da sostanze cancerogene: questo vuol dire rischio medio-alto e necessità - prevista per legge - di un'attività di prevenzione continua e controlli sanitari periodici. Niente di tutto questo dai vertici dell'ateneo (primo fra tutti l'ex Rettore Ferdinando Latteri, oggi parlamentare dell'Mpa), che infatti nell'udienza preliminare fissata per l'8 luglio dovranno rispondere di omicidio colposo plurimo.
E però il sospetto che non di colpa ma di dolo si tratti ti viene forte quando il dottor Giacinto Franco, per un quarantennio a capo del reparto di Pediatria dell'ospedale di Augusta e fra i primi a mettere in relazione malformazioni e tumori con la presenza del polo industriale, spiega per filo e per segno quali effetti ha sulla salute ciascuno di quei metalli pesanti che in quel laboratorio erano concentrati. Perché il Rettore/medico non si è mai posto il problema? Perché altri, che dovrebbero essere uomini di scienza, non si sono mai posti il problema?
Domande e sospetti che si rafforzano ulteriormente nel momento in cui - praticamente a sorpresa, mi spiega l'avvocato Terranova, che spera in altri "risvegli di coscienze" nel corso del dibattimento - prende la parola il professor Ennio Bousquet, che per tre anni, fra il 1999 e il 2002, è stato Direttore del Dipartimento di Scienze farmaceutiche. E spiega di avere ripetutamente quanto inutilmente segnalato le anomalie di quel laboratorio agli "organi competenti", che rispondevano con "interventi temporanei e non risolutivi". Bousquet ha parlato di fognatura in comune per tutte le strutture di quell'edificio 12 e anche di frequente uso di sostanze radioattive, ma non sembra che nessuno abbia ritenuto opportuno dargli ascolto. Poche parole anche da lui, ma sufficienti a lasciarti di sale. E un'ulteriore denuncia: che il silenzio era legato all'ambizione o alla paura, perché se sei un giovane dottore di ricerca devi lavorare sodo e magari se fai notare che quell'edificio è a rischio non ti ci fanno mettere più piede; e se sei professore associato vuoi diventare ordinario e se sei professore ordinario aspiri a gestire la politica universitaria. E per passare di grado devi pubblicare le tue ricerche "con rapidità e scarse norme di sicurezza". Poche parole, che - secondo Terranova - faranno di Bousquet un "testimone chiave". Anche perché l'ex Direttore del Dipartimento ha parlato di situazione analoga (a parte qualche isola felice) in tutta Italia.
Perché l'università della Gelmini come quella di Latteri o di quelli come lui è così: produci, consuma, crepa. E quei ragazzi meno che trentenni, alla fine, non hanno nemmeno consumato. Si sono fatti consumare, si sono fatti spremere come limoni, hanno prodotto, magari hanno anche fatto ricerche di cui altri si saranno appropriati e poi gli hanno fatto anche il favore - a quest'università che, bossianamente, i meritevoli li vuole fuori dalle balle, da morti o da migranti - di morire prima che il loro lavoro fosse riconosciuto, prima di avere il tempo di rivendicare i loro diritti.
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