Centocinquanta morti per tumore ogni anno. Fra il 2004 e il 2007 sono stati seicentodiciotto e le persone che si sono ammalate di cancro fra il 2004 e il 2008 sono state più di quattromila. Centinaia i bambini nati malformati, chissà quanti quelli che non sono nemmeno riusciti a nascere. Anni di denunce, spesso lanciate nel vento.
Il Petrolchimico di Gela - il mito dell'industrializzazione degli anni Sessanta - è sempre lì a mietere vittime, con il ricatto del lavoro, anche quando smobilita e annuncia quattrocento licenziamenti tutti in una volta nel diretto che ne portano come conseguenza altre centinaia nell'indotto. Il Petrolchimico è sempre lì, con il suo carico di morte, perché ai padroni non conviene mettere in sicurezza gli impianti: che crepino pure i lavoratori. Il tumore viene anche dopo molti anni, dopo che hanno lasciato il lavoro, intanto però hanno prodotto.
Oggi nella fabbrica della morte la Guardia costiera, su disposizione del procuratore Lucia Lotti, ha sequestrato per violazione delle leggi sulla tutela ambientale una delle vasche della "discarica controllata" della Raffineria numero 4, un impianto destinato a contenere rifiuti speciali pericolosi e che, proprio per questo, dovrebbe rispettare senza deroghe le rigide disposizioni di leggi. Evidentemente non era così: i militari hanno scoperto che i teli della discarica che avrebbero dovuto coprire ben sette tonnellate di amianto erano lacerati in più punti così come le borse contenenti i rifiuti. Subito dopo, da analisi di laboratorio è emerso che si tratta della varietà di amianto chiamata amosite che anche a distanza di quarant'anni può provocare il mesotelioma pleurico ed è ritenuta da studi recenti la causa principale delle patologie respiratorie perché le sue fibre sono microscopiche ed entrano facilmente negli alveoli polmonari. Ma ci può stare quarant'anni appunto il tumore nascosto lì, giusto il tempo di andare in pensione.
Dopo la scoperta, la magistratura ha iscritto nel registro degli indagati per violazione del codice dell'ambiente quattro dirigenti della fabbrica, primo fra tutti l'amministratore delegato di "Raffineria di Gela srl", Bernardo Casa, che appena ieri, insieme ad altri tre manager del Petrolchimico gelese, aveva avuto notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari per un'altra vicenda saltata fuori nell'autunno del 2010 e per la quale sono stati ipotizzati i reati di falso e omissione delle necessarie misure per prevenire disastri o infortuni sul lavoro.
La scoperta fatta dagli inquirenti durante un'ispezione nell'area del pontile principale dello stabilimento è agghiacciante: in pratica le pompe del sistema antincendio sarebbero state collegate alle tubature che servono al passaggio degli idrocarburi e quindi c'era il rischio che, invece di essere spenti, gli incendi potessero essere alimentati da quei gas che si trovavano nel posto sbagliato. Con conseguenze immaginabili per chi fosse incaricato di domare il rogo o si trovasse in zona. Che certamente non erano i dirigenti, i quali probabilmente sapevano che le relazioni redatte dai tecnici dell'Eni sulla conformità dell'impianto antincendio non erano veritiere e servivano solo ad ottenere al più presto il via libera per la sua utilizzazione.
Prima o poi, forse, questi saranno processati e probabilmente anche condannati sia per la storia dell'amianto che per quella dell'impianto fasullo antincendio, ma intanto la gente in Sicilia continua a morire pur di lavorare.
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