Braccati. Come se fosse colpa loro. Il rischio di perdere la casa perché non riesci più a pagare il mutuo, le banche che ti telefonano per rientrare dalla scopertura e non vogliono sentire ragioni, le bollette da pagare, l'azienda telefonica che ti sospende il servizio. Ne ho visto qualcuno evitare di rispondere al telefono nel timore che fosse il padrone di casa che rivendicava il pagamento dell'affitto o il macellaio che voleva saldato il conto. Cornuti e mazziati: così va il mondo nella repubblica fondata sui licenziamenti.
I quasi duecento lavoratori della Elco sono soltanto gli ultimi, in questa Sicilia dove la disoccupazione ha raggiunto livelli insostenibili ed è funzionale a mantenere i cittadini in uno stato di sudditanza, ad essersi ritrovati - all'improvviso, l'estate scorsa - senza lavoro perché il padrone ha deciso di chiudere. Come altre migliaia di lavoratori che negli anni, a Catania e in Sicilia, dalla Cesame alla Fiat, da un giorno all'altro hanno visto andare in fumo il loro futuro e quelli dei loro figli. Ma con una particolarità in più: l'indifferenza e l'abbandono. Sembra che di loro non si accorga nessuno: non i cittadini, indolenti e indifferenti, che notano il negozio chiuso soltanto quando ci vanno per comprare qualcosa; non le istituzioni che in altre situazioni - non foss'altro che per campagna elettorale - hanno finto di interessarsi a lavoratori di aziende in crisi; non i sindacati (e fa male sentirselo raccontare e doverlo riferire) perché, qualunque sia la sigla alla quale sono iscritti, questi lavoratori si sentono abbandonati a se stessi; non la stampa locale perché la raccolta pubblicitaria evidentemente è più importante della vita delle persone; non alcuni avvocati, troppi se anche fosse stato uno solo, eccessivamente e in maniera sospetta sveltissimi ad abbandonare l'incarico un giorno dopo averlo assunto.
Un paio di giorni fa, davanti ai giudici della sezione fallimentare del Tribunale di Catania, si è svolta l'udienza per il concordato preventivo: è la conseguenza della richiesta di liquidazione avanzata dall'azienda, "un passo prima del fallimento", spiega l'avvocato Elisa Di Mattea, che assiste senza esitazioni sei dei lavoratori buttati sulla strada dalla famiglia Ferlito, proprietaria della Elco. In pratica, in questa fase la società avrebbe la liquidità per saldare i creditori, sia pure divisi in due classi diverse: i creditori privilegiati, cioè le banche (perché vantano dei diritti su un capannone ipotecato) e gli stessi dipendenti, e i creditori chirografari - in generale, i fornitori - che non hanno alcuna garanzia. Nel concordato preventivo i creditori privilegiati vanno pagati per intero e non hanno diritto di voto, quindi non possono pronunciarsi proprio in merito a questo tipo di accordo, mentre i chirografari - per i quali, in questo caso, la Elco ha proposto di pagare il 30% di quanto dovuto - hanno diritto di voto e possono opporsi al concordato perché ritengono che l'azienda possa avere altri beni o perché non si accontentano di quella percentuale. Dunque hanno il potere di bloccare tutto e di far dichiarare il fallimento della società. Che insomma, interpretando un po' a naso, sembra che i privilegiati siano proprio i chirografari che così hanno potere di vita e di morte sui lavoratori, mentre il presunto privilegio di questi ultimi si trasformerebbe in una beffa se il Tribunale accettasse la proposta della Elco: pagare il Tfr in cinque anni in rate semestrali, che a occhio e croce fa settanta euro al mese. Chiunque abbia una famiglia (persino se è un single che si limita a respirare) sa che con settanta euro non ci campi nemmeno una settimana, ma sembra che - contrariamente a quanto ritiene circa l'80% dei tribunali italiani secondo i quali, in base alla spiegazione dell'avvocato Di Mattea, una dilazione così lunga limiterebbe il privilegio - i giudici catanesi sarebbero disposti a favorire questa soluzione, con la motivazione che l'azienda su questa specie di rateizzazione pagherebbe anche gli interessi. "Ma ai lavoratori non importa degli interessi", sbotta Di Mattea, perché ovviamente anche loro dovrebbero aggiungere spese ai conti che non possono pagare.
Inoltre, sempre secondo l'avvocato, non è che ci sia da stare poi così tranquilli rispetto al calcolo della liquidazione: sembra infatti che i conteggi non corrispondano, che ci siano delle incongruenze con quanto risulta all'Inps, che in alcuni casi siano state messe in conto le ferie non godute e ci siano circa cinquemila euro di differenza fra i conti fatti dall'azienda e quello che risulta all'Inps. E forse potrebbe anche esserci qualcosa di poco chiaro, se è vero che per alcuni dipendenti non sono stati versati due anni di contributi. Certo è strano che nel febbraio 2011 la società risultasse a posto con l'Inps (ma il Durc, il documento che attesta la regolarità dei versamenti dei contributi, si basa sul silenzio-assenso e dunque, se l'Istituto non risponde, si dà per assodato che sia tutto in regola) mentre nell'ottobre successivo, appena otto mesi dopo, aveva accumulato nei confronti dell'Istituto di previdenza debiti per duecentomila euro. Osservazione che i legali dei lavoratori sottoporranno al commissario liquidatore.
Nel frattempo, però, l'udienza aperta un paio di giorni fa è stata richiusa dopo pochi minuti e rinviata di quasi due mesi. Due mesi durante i quali i lavoratori continueranno a non poter pagare le bollette, l'affitto, il mutuo; continueranno a temere il telefono che squilla; continueranno a fare i salti mortali per non far mancare l'indispensabile ai loro figli e continueranno a vivere nell'agonia. Ma questo non importa a nessuno e nessuno ne parla.
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