sabato 4 giugno 2011

Morti e gambizzati, ma a Catania la mafia non c'è

Catania oggi si è risvegliata avvolta nello stesso incubo di sempre. No, non Catania in realtà, che continua indolente e colpevolmente fatalista come sempre il suo cammino per inerzia, un cammino statico si direbbe; non quella Catania che incarna ancora – oltre cinquant’anni dopo la fotografia brancatiana – l’immagine dei giovani seduttori inutili e ciondolanti davanti ai bar della via Etnea a veder scorrere il mondo fuori da sé. No, quella no: quella continua ad essere la Catania del “tanto si ammazzano fra di loro” o del “a mmia cchi mi nni veni?”. Nell’incubo, ancora una volta, si sono svegliati quei pochi (pochissimi) catanesi che ancora e malgrado tutto si ostinano ad amarla questa città e – come amanti respinti – a lasciarsi andare al pianto e alla rabbia.
Il cerino lo aveva acceso qualcuno già ieri e chiunque abbia un minimo di attenzione o di memoria delle cose di questa città poteva prevedere facilmente che oggi il bosco si sarebbe incendiato. Ieri a Misterbianco, diramazione e succursale mafiosa di Catania, era stato gambizzato Giuseppe Garozzo, “Pippu u maritatu”, boss di spicco del clan dei Cursoti e subito si erano concatenate le notizie: qualche giorno prima a San Gregorio (altro centro dell’hinterland catanese) altre gambe erano state raggiunte da colpi di pistola ed erano quelle del titolare di una concessionaria di auto. E subito si concatenano parole e ricordi: gambizzare, clan, concessionaria d’auto. Sembra di essere tornati ai tempi di Nitto Santapaola, delle guerre di mafia, dei cento morti l’anno. Infatti stamattina, puntuale come un orologio svizzero nella terra della lassitudine mentale (e perciò ancor più sconvolgente), è arrivata la conferma. Come da copione: alle 5 del mattino, in un bar di corso Indipendenza, mentre il titolare non vedeva e non sentiva perché intento a sistemare le brioches prima di disporle sul balcone, un sicario è entrato e ha ammazzato con alcuni colpi di pistola Salvatore Grasso, anche lui esponente del clan dei Cursoti, che in quel momento stava giocando alle slot-machine.
Che poi ci sarebbe pure da chiedersi perché uno alle 5 del mattino di un sabato di giugno, invece di avere davanti ancora un paio d’ore di sonno, sta in un bar a giocare con le macchinette. E ci sarebbe da chiedersi se nessuno lo aveva informato di quanto accaduto il giorno prima al suo boss e anche se non sia stato tanto stupido da recarsi a un appuntamento pur sapendo quanto era accaduto il giorno prima al suo boss.
Ora spero solo che qualche genio non ci venga a dire, come già qualche anno fa, che a Catania non c’è nessuna guerra di mafia e forse persino che la mafia non c’è. Perché che la mafia c’è – e non uccide solo i suoi uomini infedeli, ma uccide l’economia, uccide il lavoro, uccide il futuro di questa città a cui fa comodo continuare a pensare che si ammazzino soltanto fra di loro - lo dimostra non soltanto questo paio di giorni di fuoco, che realisticamente porterà con sé una lunga scia di ferimenti e forse altri omicidi, ma tutti gli altri giorni dell’anno in cui non si spara ma aprono e chiudono bar o ristoranti che riaprono il giorno dopo esponendo il cartello “nuova gestione”, aprono e chiudono negozi di lusso che riaprono il giorno dopo esponendo il cartello “nuova gestione”, aprono e chiudono girarrosto che riaprono il giorno dopo esponendo il cartello “nuova gestione” e sempre con lo stesso inquietante “topos”: a gestire il bar o il ristorante – e mi si perdonerà la semplificazione fisiognomica, giustificata non tanto da tratti somatici, quanto da atteggiamenti inequivocabili – è il mafioso-tipo, generalmente sessantenne, quello che per camminare deve dimenare circolarmente l’addome e tenere le braccia larghe e in avanti quasi a voler delimitare la proprietà di tutto il marciapiede, quello che ti guarda a un tempo in tralice e con fare sarcastico per dirti che tu – comune mortale che rispetta le regole – sei una merda, quello con l’occhio roteante a 360° perché il territorio è suo e nulla deve sfuggirgli; nel negozio di lusso invece a fare gli onori di casa c’è la generazione dei quarantenni: giovani uomini con la brillantina nei capelli, vestito gessato, scarpe a punta e fare mellifluo da agente immobiliare, che altro non è se non la versione moderna e “acculturata” del gestore del bar e/o ristorante, di cui probabilmente è prestanome; il terzo tipo, quello di chi ha in gestione il girarrosto, sono due tipe invece: due donne, entrambe abbastanza giovani ma a volte di due generazioni diverse – una madre e una figlia, una suocera e un nuora, due cognate -, entrambe con i capelli giallo stoppa ed entrambe vestite a lutto dalla testa ai piedi, calze comprese, persino d’estate.
Ora io non so se le mie sono rappresentazioni romanzate della realtà o se dipendono dal fatto che cammino troppo a piedi per non notare dettagli minimi che in auto inevitabilmente sfuggono, ma mi chiedo sempre più spesso perché gli altri non se ne accorgano, perché – soprattutto – non se ne accorgano quelli che dovrebbero indagare. Poi ti viene il sospetto che a qualcuno faccia comodo lasciare le cose come stanno oppure che non abbiano tempo di occuparsi della città, impegnati come sono a decidere organigrammi, a comporre e scomporre correnti, a litigare sul nome che meglio di tutti potrà garantire di non dare fastidio a chi governa con i voti dei gestori dei bar, dei negozianti parvenus, delle vedove e delle orfane inconsolabili.

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