Qualcuno lo ha definito un pentolone nauseabondo, ché – se lo scoperchi – ci trovi dentro favoritismi, inciuci, matrimoni politici di interesse, raccomandazioni, soprusi, reati, sperpero di denaro pubblico, imbrogli di ogni tipo commessi con palese certezza di impunità: microcosmo, questo, che riproduce perfettamente il macrocosmo Sicilia, dove in nome del potere per il potere convive tutto e il contrario di tutto e sembra normale; dove al governo della regione (e senza nemmeno il sigillo della volontà degli elettori), con un presidente indagato per rapporti con la mafia, ci sta quel partito i cui dirigenti si ostinano – senza provare l’ombra della vergogna – ad autoproclamarsi eredi di Pio La Torre. E sembra normale.
Il pentolone nauseabondo è l’Istituto autonomo case popolari di Catania, finito al centro di un’inchiesta dopo che due anni fa l’assessorato regionale ai Lavori pubblici decise – formalmente in seguito a numerose segnalazioni di illeciti, in realtà perché erano cambiati gli equilibri politici – di inviare tre ispettori che, al termine della loro attività di indagine, nell’aprile 2009, mandarono una relazione dettagliata suggerendo di portarla a conoscenza anche della procura della Repubblica di Catania e della Corte dei conti. Nel rapporto, in sintesi, si affermava che il direttore generale, Santo Schilirò Rubino, gestiva l’ente come fosse a casa sua, assegnando arbitrariamente gli alloggi popolari, facendo assunzioni altrettanto arbitrarie, rinviando il pensionamento della moglie in modo che la signora potesse ritirarsi dal lavoro con il massimo dei contributi, manipolando il protocollo in modo da inserire documenti quando voleva lui. A stimolare l’attività ispettiva nei confronti di Schilirò, all’epoca vicino al Pdl, fu il commissario straordinario, Santino Cantarella, uomo invece di Raffaele Lombardo che da un anno era stato eletto presidente della Regione e che aveva già avviato quel suo personalissimo - oggi quasi arrivato a compimento assoluto - spoil-system, piazzando nei posti di gestione del potere tutti i suoi uomini. Cantarella - nominato dopo che era decaduto il presidente Vincenzo Gibiino, di Forza Italia e vicino al senatore Pino Firrarello –, secondo quanto raccontano quelli che hanno vissuto i fatti dall’interno, a Schilirò contestava proprio di essere stato pappa e ciccia con l’ex presidente, consentendogli di costituire tre partecipate mettendoci dentro i componenti del consiglio di amministrazione dello Iacp, di assumere a suo piacimento persone del suo partito, di fare viaggi all’estero e godere di numerosi benefit. Intento moralizzatore? Difficile da credere. Comunque Cantarella annullò i provvedimenti di Gibiino e sulla base di quei rilievi accertati poi dagli ispettori arrivò a licenziare Schilirò, in un secondo momento reintegrato dal giudice del Lavoro che – non entrando nel merito delle accuse – indicava come vizio procedurale il licenziamento deciso da un organo politico quale è il commissario e si preoccupava del danno di immagine per il dirigente. Dopo di che finì tutto a tarallucci e vino: Schilirò – raccontano sempre alcuni che hanno visto le cose con i loro occhi -, fiutato il vento, sarebbe passato alla corte di Sua maestà Raffaele I (e speriamo ultimo), ottenendo di restare e impegnandosi a non chiedere i danni per il presunto ingiusto licenziamento.
Dovrà passare ancora più di un anno da quella relazione degli ispettori perché si sappia di un’inchiesta della procura di Catania, il cui avviso di conclusione delle indagini – notificato agli indagati nell’aprile scorso – è stato reso noto soltanto da qualche giorno. Indagati, sì, perché nel documento si ipotizzano (per Schilirò Rubino, per alcuni dipendenti dello Iacp suoi fedelissimi e per alcuni beneficiari dei loro favori) diversi reati che vanno dal falso ideologico alla truffa, all’abuso d’ufficio. Indagati ancora al loro posto (pensionati a parte), perché non sembra né che il nuovo commissario straordinario, Antonio Leone, abbia preso provvedimenti né che la magistratura abbia applicato misure interdittive, nemmeno nei confronti del direttore generale, il cui mandato scadrà nell’ottobre prossimo e c’è già chi scommette che sarà “premiato” e riconfermato.
Come se non bastasse, dall’informazione di garanzia emerge anche che Schilirò avrebbe continuato a commettere reati mentre l’indagine era in corso. Ancora qualche giorno, poi, e sarebbe stata diffusa un’altra notizia: i magistrati hanno inviato un rapporto alla Corte dei Conti ipotizzando un danno erariale di oltre trenta milioni di euro. In pratica, l’Istituto “dimenticava” sistematicamente e forse non casualmente di recuperare le morosità dei canoni di affitto dei propri immobili. Case, spesso assegnate a chi non aveva i requisiti o era proprietario di appartamenti, ma anche botteghe che sulla cifra complessiva di morosità non riscosse incidono per ben sette milioni di euro. Botteghe peraltro la cui esistenza sembra non venisse resa pubblica, come sarebbe normale se si volesse (dal momento che, diversamente dagli alloggi, qui l’unico “requisito” per ottenerle – oltre all’iscrizione alla Camera di Commercio e alla dichiarazione dell’attività che vi si intende svolgere – è l’ordine di arrivo della domanda) consentire a chiunque di venirne a conoscenza ed eventualmente presentare richiesta. Invece, a quanto sembra, erano in pochi a saperlo e dunque a presentare domanda di assegnazione: parenti, amici e amici degli amici. Parenti come il figlio di Schilirò Rubino, Ettore, che avrebbe ottenuto una bottega senza nemmeno la fatica di prendere carta e penna per chiederla e in più l’avrebbe ristrutturata quasi interamente a spese dell’Istituto. Ma non è il solo e, a spulciare l’elenco dei morosi, ci si rende conto del livello di commistione e di connivenza. Morosi sarebbero, per esempio, per botteghe adibite a caf e patronati vari, il segretario della Cgil catanese, Angelo Villari (soltanto 2.000 euro), e l’ex segretario della Cisl, Totò Leotta, che allo Iacp di euro dovrebbe darne ben 46.000; e poi altri sindacalisti, fra i quali spicca Carlo D’Alessandro, segretario del Sicet, che ha ben tre botteghe (a Catania, Adrano e Caltagirone) e sembra abbia fatto lievitare la sua morosità fino a circa 50.000 euro. Ma poi, fra quelli che ritengono di poter usufruire di una bottega per diritto divino, fino a qualche anno fa c’è stato pure un prete, Giuseppe Catalfo, parroco della chiesa di San Giovanni Galermo (grosso quartiere della periferia nord di Catania), che di botteghe adibite agli usi parrocchiali ne aveva due, con un debito complessivo di poco meno di 80.000 euro. Non manca neppure, tanto per gradire, un consigliere comunale dell’Mpa (Maurizio Mirenda, fra l’altro al centro di un’inchiesta per voto di scambio) con il suo bel patronato nello stesso quartiere del prete: uno di quei rioni in cui ancora i voti si pagano con i pacchi di pasta. Mirenda allo Iacp dovrebbe dare più di 56.000 euro. Poi c’è da aggiungere – oltre al fatto che su tutte queste botteghe per le quali non riscuote un centesimo l’Istituto deve pagare ogni anno 54.000 euro di Ici – anche le morosità della ex Usl3 (ora Asp) di Catania, delle Poste italiane, della Dusty (azienda che fornisce servizi di igiene ambientali ai comuni), del comune di Catania (che nel frattempo, però, anche se non si capisce bene con quali soldi, sembra abbia acquistato le botteghe in affitto e quindi pagato il debito nel costo complessivo degli immobili), della provincia di Catania a guida Pdl che all’Istituto dovrebbe dare ben 380.000 euro per l’affitto di villa Pantò, edificio storico in cui ha sede l’Accademia di Belle Arti.
Infine, ci sarebbe anche da parlare di uno strano gioco delle tre carte, che riguarda una bottega nel quartiere Librino, assegnata nel febbraio del 1981 a una specie di pittore naïf, Gaetano Calogero, che c’è rimasto fino al novembre del 2010 e poi – ritenendo superfluo dare disdetta, consegnare le chiavi in modo da consentire ai tecnici dello Iacp di accertare eventuali danni e saldare le morosità che nel frattempo avevano superato i 15.000 euro – lo ha ceduto in amicizia al segretario del Pd cittadino, Saro Condorelli, che si è insediato a dicembre del 2010, un mese dopo che Calogero aveva liberato la bottega. Nel gennaio 2011, alla presenza di parlamentari regionali e nazionali (fra i quali il giovane Giuseppe Berretta che oggi, proponendosi come il nuovo che avanza, si candida alle primarie per la scelta del sindaco di Catania), l’inaugurazione in pompa magna sotto lo slogan: “Il Pd riparte da Librino”. Secondo qualcuno, un’operazione al limite dell’abusivismo perché a quel momento (non si sa se lo abbia fatto nel frattempo) il partito che garantisce lunga vita al governo Lombardo non sembra avesse firmato alcun contratto di locazione.
Dalle indagini della procura si evince che Santo Schilirò Rubino, ora uomo di Raffaele Lombardo, tutte le sue magagne le avrebbe combinate anche con la preziosa collaborazione di una dipendente dell’Istituto oggi in pensione, Anna Tusa, ex sindacalista della Cgil. E adesso si apprende che Schilirò è difeso dall’avvocato Walter Rapisarda, dello studio dell’avvocato Guido Ziccone, docente universitario e parlamentare Pdl, oltre che difensore di Lombardo nell’inchiesta Iblis in cui il governatore della Sicilia è indagato per rapporti con la mafia; mentre Anna Tusa è difesa dall’avvocato Rosario D’Agata, capogruppo del Pd in consiglio comunale.
Tutto si tiene, nel migliore dei mondi possibili. E il pentolone nauseabondo - di cui parlò un anno fa Orazio Licandro, pericoloso comunista dirigente nazionale dei Comunisti italiani-Federazione della Sinistra – oggi puzza di cloaca maxima.
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