giovedì 11 aprile 2013
Abulia in technicolor
Sono nata fortunatamente abbastanza tardi per non guardare in faccia le macerie, la paura della fame e del fascismo, la miseria, ma fortunatamente abbastanza presto per cogliere nell'aria il ricordo delle macerie, della paura, della miseria, per avvertire la fatica della ricostruzione e della rinascita. Sono nata con le foto in bianco e nero, sono diventata adolescente con quelle a colori, di un colore fissato male e che ben presto si uniformava in una sfumatura ruggine, invecchio in un mondo nitidamente, indelebilmente e tecnologicamente a colori.
Eppure ritrovo ciò che ho conosciuto attraverso i film, i tanti film in bianco e nero che a lungo ci sono stati maestri: ritrovo le macerie, la miseria, l'analfabetismo dei momenti di guerra, la paura dell'altro, la diffidenza. Non ci sono più le scarpe che si lucidavano, si spazzolavano, si risuolavano; non ci sono i cappotti che si rivoltavano, si rimodernavano, passavano di fratello in fratello, di sorella in sorella. Non c'è la guerra, non qui, non abbastanza vicino da occupare i pensieri di tutti i giorni; ma non c'è nemmeno la spensieratezza forzata e terapeutica del dopoguerra, del postfascismo, quella che serviva, doveva esserci, era obbligatoria per farci prendere per mano dalla vita e ricominciare con lei un nuovo cammino.
Siamo ridiventati poveri, poveri di soldi, sì, ma soprattutto poveri di cultura, di idee, di moti di dignità e ribellione, di voglia di cambiare, migliorare, progredire. Non reagiamo: non respingiamo le ingiustizie (o, forse, peggio, nemmeno le riconosciamo); non ci indignano traccheggiamenti, inciuci, trame di potere che ci privano di un governo; non alziamo la voce contro l'arroganza. Semplicemente, scivoliamo. La nostra è un'abulia in technicolor, buia come la morte. Forse era meglio il bianco e nero, con la sua speranza di colore.
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