La sua battaglia, quella personale con la vita, l'ha persa qualche giorno fa. Oscar Misin, operaio della Sacelit di San Filippo Del Mela e sindacalista, che di battaglie collettive con e per i suoi compagni di lavoro ne aveva fatte tante fino a diventare punto di riferimento del "Comitato ex esposti amianto", è morto di tumore provocato dall'asbesto il 12 febbraio scorso: un giorno prima che il Tribunale di Torino condannasse - per la morte di migliaia di persone esposte all'amianto (e di chissà quante altre in futuro, dal momento che la malattia può stare in incubazione trent'anni prima di manifestarsi) - i dirigenti della fabbrica Eternit di Casal Monferrato a sedici anni di reclusione con una sentenza da molti definita storica. Perché in un paese anormale ciò che dovrebbe essere normale diventa straordinario.
Dei 220 operai Sacelit ne è già morta circa metà. A Misin è toccato il numero 108. Di Rosario Lamari, operaio della Keyes di Fiumefreddo, invece, non si sa che posto occupi nel numero delle vittime dell'amianto. In quella fabbrica, messa sotto sequestro su disposizione della procura di Catania il 17 febbraio scorso a dodici anni dalla chiusura per fallimento (e tre anni dopo un altro sequestro per via delle centinaia di tonnellate di amianto rimaste sul terreno) perché nessuna bonifica era stata effettuata, Lamari ci aveva lavorato per trent'anni, dal 1972 fino alla chiusura, e nel 2007 si era ammalato: sbandamenti, vertigini, mal di testa, le gambe che non gli reggevano, sdoppiamento della vista. Così per circa otto mesi e poi se n'era andato, a cinquantasei anni. Il figlio racconta che i medici - prima di emettere la diagnosi di glioblastoma, un tumore al cervello devastante e fulminante - gli avevano fatto una domanda ben precisa: se avesse lavorato in un posto dove c'erano colle, vernici e amianto. C'era tutto questo alla cartiera in cui si producevano i cartoni per le uova che si trova a un tiro di schioppo dalla riserva naturale e dalla spiaggia di Marina di Cottone, alla quale da anni Legambiente assegna la bandiera blu, simbolo di mare incontaminato. C'era tutto questo e l'amianto era dappertutto: non solo nelle coperture dei capannoni, ma nella coibentazione del forno in cui i cartoni venivano essiccati, nella copertura dei macchinari, nelle tubature di tutta la fabbrica. Un operaio racconta che, quando la cartiera fu dismessa, quei tubi li tagliavano a mani nude e senza alcuna protezione.
Però ancora non si sa con esattezza quante siano le vittime. Nei comunicati degli inquirenti si parla di "vari decessi", di "diversi operai" morti per tumore ai polmoni, ma un numero non c'è. Gli stessi lavoratori sanno che i loro compagni si sono ammalati. Lo sanno anche per via di una serie di rilievi mossi dal professor Vincenzo Milana, ordinario di Medicina legale nella facoltà di Giurisprudenza di Catania, a una "consulenza tecnica d'ufficio" redatta dal professor Eraldo Marziano su incarico della stessa azienda dopo che, nel 1995, alcuni operai avevano chiesto a fini pensionistici una dichiarazione dalla quale risultasse che durante gli anni in cui ci avevano lavorato erano stati esposti al rischio di inalare fibre di amianto. La richiesta degli operai derivava dai risultati di una verifica effettuata nell'estate di quello stesso anno dal Servizio di Medicina del Lavoro dell'Ausl 3 dalla quale emergeva come la coibentazione fosse "notevolmente sfaldata con evidente dispersione di fibre negli ambienti di lavoro". Solo poco meno di un anno dopo - fa notare Milana - l'azienda aveva provveduto a "incapsulare il materiale contenente amianto mediante un lamierino di alluminio" e malgrado ciò ancora qualche mese dopo nell'ambiente c'erano particelle di amianto, "anche se in quantità tollerabili". Milana sottolinea che il consulente d'ufficio fece la sua perizia ("accertamento di parte - dice, fra l'altro - senza alcuna garanzia per i lavoratori sulla sua obiettività") in cui escludeva il rischio di patologie legate alla presenza di quel materiale soltanto dopo la bonifica e peraltro "nel corso di un solo sopralluogo". E spiega: "Lo stabilimento lavora con un ciclo continuo e quindi risulta quanto meno verosimile che l'immissione di materiale contenente fibre di amianto possa avvenire con sensibili variazioni con elevazione delle quantità disperse nell'arco delle 24 ore tanto da rendere rischioso l'ambiente di lavoro". Il docente universitario infine aggiunge che lo stesso Marziano non escludeva che prima della bonifica il rischio fosse esistito e conclude che, se dopo quell'intervento c'erano ancora particelle di amianto nell'ambiente, "risulta ragionevolmente certo che dette particelle fossero molto più abbondanti prima della bonifica e pericolose per la salute dei lavoratori".
Che, infatti, si sono ammalati. Non si sa quanti: vari, diversi. E il numero esatto forse salterà fuori fra una ventina d'anni, quando sarà chiaro il nesso fra i decessi e quella fabbrica. Intanto, quasi a voler circoscrivere il rischio e scacciare lo spettro che tutti i lavoratori di quella fabbrica possano rimetterci la vita e non soltanto chi è stato a più a stretto contatto con l'amianto, quelli che sono rimasti ripetono quasi ossessivamente: "I caldaisti, i caldaisti sono morti tutti".
E c'è ancora da capire perché e sulla base di quali accertamenti Legambiente abbia dato le bandiere blu a quella zona piena di fiumi sotterranei che nel loro cammino verso il mare trascinano con sé le scorie tossiche e, soprattutto, qualcuno dovrà spiegare perché la bonifica disposta dalla Procura di Catania non sia stata eseguita.
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