venerdì 14 giugno 2019

La lettura dei giornali in classe? Una perdita di tempo

C’è una prof, in un liceo di provincia, che fa leggere i giornali ai suoi alunni del biennio. Tutti i giorni: «preghiera laica del mattino» la chiamava Hegel. A turno, in ordine alfabetico, mi ha raccontato, a ciascuno o a ciascuna tocca portare un quotidiano – sì quello di carta - in classe. A scelta dello stessa ragazza o dello stesso ragazzo. Pluralismo dell’informazione.
Ovviamente non è l’unica in Italia, altrimenti questo paese sarebbe definitivamente perduto, e mi ha fatto ripensare alla mia insegnante di Lettere del ginnasio che, ormai quasi cinquant’anni fa, ci faceva fare la lettura comparata dei giornali stimolando il nostro spirito critico, che poi dovrebbe essere il compito primario della Scuola. Insegnante fra le più brave di quel liceo molto ambito della mia città, dove (quasi) tutti gli insegnanti erano di alto livello. E dove quel metodo allora innovativo era molto apprezzato dal corpo docente, dagli alunni e dalle alunne, e dai genitori.
Ma il metodo della prof di quel liceo di provincia evidentemente dà fastidio, tanto che qualcuno con una lettera anonima l’ha accusata di trascurare il programma (oh, il programma, totem inviolabile della mediocrità e spesso alibi per non affrontare la vita) e di «perdere tempo» con la lettura dei giornali. Il che la dice lunga sulla mutazione genetica del nostro paese, dove una volta i genitori mandavano i figli a scuola perché si affrancassero, perché progredissero, imparassero a stare al mondo, diventassero donne e uomini migliori. E dove oggi invece genitori cresciuti (e rincretiniti) a merendine prefabbricate e grandi fratelli credono alle fake-news degli odiatori di professione ma non agli insegnanti, soprattutto a quelli bravi (e sono tanti), che vengono umiliati, insultati, puniti solo perché cercano, malgrado stipendi offensivi, di fare al meglio il loro lavoro. Visti come nemici che potrebbero minare il precario potere da quattro soldi che esercitano sui propri figli. 
Del resto, è emblematica la vicenda non ancora conclusa della professoressa palermitana Rosa Maria Dell’Aria, privata per quindici giorni non solo dello stipendio ma soprattutto della possibilità di incontrare i suoi ragazzi e confrontarsi con loro, e poi derisa, presa in giro, usata mediaticamente da ministri che non hanno alcun senso delle istituzioni e che i ragazzi li vogliono, appunto, ignoranti e ottusi, a loro immagine e somiglianza. E che vivono l’informazione e la cultura come una bestemmia. Altro che preghiera laica.

lunedì 20 maggio 2019

Legittima difesa

Ho letto la storia di Deborah, la studente del liceo artistico di Monterotondo che durante una lite ha ucciso il padre violento. Ho letto che era bravissima a scuola - selezionata per le olimpiadi di Filosofia -, che qualcuno si chiedeva perché una ragazza così carina fosse sempre triste, che dell’inferno che viveva a casa non parlava con nessuno.
Ho letto la storia di Deborah e mi sono tornate in mente tutte le storie di ragazze e ragazzi che hanno avuto la vita devastata da un padre violento: quelli più grandi, che facevano i turni per uscire la sera pur di non lasciare la mamma nelle mani del suo potenziale assassino, e quelli più piccoli che durante le liti si frapponevano fra il padre e la madre, a fare scudo con il loro corpo. 
«Meg ha venticinque anni e tre cicatrici sul braccio» scriveva la mia amica e collega Roberta Fuschi nel libro a cui abbiamo lavorato insieme qualche anno fa incontrando alcune donne che l’hanno scampata, uscite vive dalla violenza dei loro compagni. Meg parlava di suo padre definendolo «quell’uomo». Quell’uomo da cui, insieme ai suoi fratelli, aveva salvato la madre beccandosi le coltellate.
Ho letto la storia di Deborah, l’ho incrociata con quella di Meg e ho ripensato a quella di G: studente liceale bravissima che viveva nello stesso inferno, chiamava suo padre «quello», non raccontava la sua storia in giro come se fosse lei a doversi vergognare, era sempre triste e la notte faceva la pipì nel letto. Una di quelle notti, mentre suo padre stringeva le mani al collo di una moglie che non riusciva a sottomettere, e niente e nessuno riusciva a distogliere quell’uomo dal suo proposito femminicida, lei afferrò una bottiglia di Coca-Cola e gliela diede in testa. 
Gli fece male, abbastanza da fermarne la violenza, ma non lo uccise e certamente non era quello il suo intento. Come non lo era per Deborah. Ma se anche lo avesse ucciso, certamente a lei sì, come a Deborah, si sarebbe dovuta riconoscere la legittima difesa: della madre e della propria stabilità psichica.

martedì 30 aprile 2019

La festa della mamma

Quando fui licenziata avevo quarantotto anni. Da allora, solo qualche lavoretto: collaborazioni giornalistiche a pochi euro ad articolo quando mi andava di lusso, qualche editore che mi chiamava per propormi l’assunzione salvo poi sparire dai radar senza lasciare in fondo al mare neppure una scatola nera; oppure mestieri che non c’entravano niente con la mia professione, sottopagati o in nero, o sottopagati e in nero. Inframmezzati da lunghi periodi in cui non uscivo più da casa, ferma a fissare il soffitto o a scavare disperatamente nella rete alla ricerca di improbabili e assurdi annunci di lavoro. Troppo vecchia, quattordici anni fa, troppo vecchia. Cominciai a raccoglierli quegli annunci sessisti, sgrammaticati, offensivi, volgari – cercando almeno di cogliere l’aspetto ironico della questione – e alcuni diventarono un pamphlet e poi uno spettacolo teatrale. Ma se ne accorsero in pochi. Cominciai a scrivere libri. Ma se ne accorsero in pochi. Provai a reinventarmi un mestiere con i libri, bello, bellissimo. Ma se ne accorsero in pochi. E di quelli che se ne accorsero solo pochi pensavano realmente che il lavoro per essere lavoro, per avere dignità, deve essere retribuito: c’era chi scroccava un posto a teatro e chi pensava che il libro dovessi regalarglielo in virtù di qualche presunta autorità o autorevolezza. Nessuno che si sia accorto che non mi si vede più in giro e, di quelli che se ne sono accorti, nessuno che abbia collegato la mancanza di un lavoro retribuito (a meno che non si pretenda di definire retribuzione poche decine o un paio di centinaia di euro al mese) con l’impossibilità di fare le cose normali di chi ha un lavoro e uno stipendio normali. Nessuno che si sia mai chiesto come facevo a campare: i giornalisti e gli scrittori nell’immaginario collettivo sono ricchi, per grazia ricevuta. E nessuno che sembri rendersi conto del fatto che ormai la gran parte dei giornalisti e degli scrittori e in generale la gran parte dei professionisti è costretta ad accettare lavoretti del cazzo retribuiti con elemosine. Parto da me, ma parlo di molti. Io sono fortunata: mi aiuta mia madre. La dignità me la sono giocata da un pezzo, ma se non fosse per lei chissà da quanto sarei finita a dormire sotto i ponti. Non sono sola: il paradosso di cinquantenni e sessantenni ancora (o di nuovo) a carico di mammà è più diffuso di quanto non si pensi. Dunque, invece di quelle feste cretine per regalare cioccolatini, profumi e gioielli in nome di cristi e madonne, inventate per sancire lo strapotere di chiesa e capitalismo, proporrei – in un paese in cui il lavoro non c’è più per nessuno (e non puoi nemmeno prendertela con quelli che comandano ora e con i loro stupidi redditi di cittadinanza perché sono il frutto di quelli che comandavano prima e le loro odiose leggi contro il lavoro e contro i lavoratori) –, di eliminare l’ipocrita festa del lavoro. E magari, anticipando di qualche giorno rispetto al calendario delle madonne, di sostituirla con la festa della mamma, o del papà per chi ne ha avuto uno decente, o dei genitori, degli zii, dei fratelli, degli amici, insomma di quelli che la dignità del lavoro non possono dartela ma fanno in modo da garantirti almeno di sopravvivere. Che comunque non è vivere. 

venerdì 26 aprile 2019

Furgiuele, l'ultras cattolico

«Dalla destra sociale proviene anche il segretario della sezione calabrese della Lega-Noi con Salvini. Si chiama Domenico Furgiuele, un passato nella Destra di Storace, e, ora, candidato alla Camera. Di mestiere fa il geometra, a tempo perso lavora nella tv locale di famiglia. Le sue passioni, il calcio e la storia. Quando era un ultras del Sambiase ha collezionato un Daspo, che la Questura affibbia solo ai tifosi più agitati. Sulla storia recente ha le sue idee. Ritiene, per esempio, il neofascista Stefano Delle Chiaie, fondatore della fuorilegge Avanguardia Nazionale, “più una vittima che un carnefice”».
Quello che avete appena letto è un brano di un articolo pubblicato sul settimanale «L’Espresso» nel febbraio del 2018, riguardante trasformisti e fascisti nelle liste di Salvini, firmato da Giovanni Tizian e Stefano Vergine.
Perché ve lo propongo? Perché sappiate chi è l’«onorevole» (sì, nel frattempo è stato eletto, ahinoi) primo firmatario di una proposta di legge che mira a incrementare i matrimoni religiosi fra giovani che abbiano meno di 35 anni, attraverso una «detrazione del 20 per cento delle spese connesse alla celebrazione del matrimonio religioso». Cioè, spiega il testo, calcolato un costo di ventimila euro, la detrazione sarebbe di quattromila euro sulle spese per «ornamenti in Chiesa, tra cui i fiori decorativi, la passatoia e i libretti, gli abiti per gli sposi, il servizio di ristorazione, le bomboniere, il servizio di coiffeur e di make-upe, in fine, il servizio del wedding reporter», che altri non sarebbe se non il fotografo. In pratica, quattromila euro di minchiate che, a voler essere pignoli, non è che c’entrino granché con la fede. Ora, a parte che evidentemente il fascista Furgiuele non sa che un matrimonio in chiesa costa molto di più dei ventimila euro ipotizzati e a parte che evidentemente il fascista Furgiuele non sa che i giovani sotto i 35 anni in Italia non si sposano (né in chiesa né altrove) perché non hanno un lavoro stabile, ci sarebbe da chiedersi se il fascista Furgiuele conosce la Costituzione italiana («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», eccetera, ha presente?) e se sa che l’Italia – almeno sulla carta – è uno stato laico. E ci sarebbe anche da chiedersi se questa proposta di legge – un'operazione che dovrebbe costare sessantacinque milioni di euro per il 2019, settantacinque milioni per il 2020 e ottantacinque milioni dal 2021 – non derivi dalla necessità di onorare qualche debito elettorale. Usando soldi degli italiani che potrebbero essere destinati a qualcosa di più serio.
Comunque è divertente notare come la pdl parli di «matrimonio religioso» e non di matrimonio cattolico. E se, per assurdo, ad accedere al beneficio alla fine fossero i musulmani? Mi piacerebbe vederlo diventare nero di rabbia. Di più, sempre per assurdo: pensate se a chiedere gli sgravi fiscali dovesse essere qualche seguace di una religione che consente la poligamia. Dieci matrimoni, quarantamila euro di sgravi? Oppure cifra piena per la prima moglie e poi a scalare? Insomma, sconti per comitive? Offre Furgiuele, ultras cattolico. 

lunedì 15 aprile 2019

Il business della disperazione

Quanto può essere disperata una persona per decidere di farsi spezzare una gamba o accettare il rischio di finire per sempre su una sedia a rotelle? Quanto può essere disperato un migrante per scegliere di rischiare la vita due volte, la prima su un barcone e la seconda facendosi fare a pezzi per pochi spiccioli? Che pacchia, eh! Hanno scelto i più deboli fra i deboli – disoccupati, ragazze madri e immigrati – i bastardi che a Palermo avevano avviato il fiorente business della disperazione rompendo braccia e gambe per incassare il premio assicurativo di poveretti a cui lasciavano solo le briciole e a volte nemmeno quelle. Truffa alle assicurazioni, l'hanno chiamata, ma era una truffa alla vita. Mille euro per una gamba, cinquecento per un braccio. Era il tariffario degli «spaccaossa» (quarantadue quelli arrestati oggi, ma l’inchiesta coinvolge ben duecentocinquanta criminali, fra i quali anche alcuni medici e un avvocato), che le ossa le rompevano davvero ma poi i soldi non glieli davano. Un business da due milioni di euro l’anno per gli organizzatori; qualche centinaio di euro, quando andava bene, per le loro vittime anche se restavano menomate a vita o la vita la perdevano, come Hadry Yakoub, un tunisino che per lo troppe fratture c’è morto ed è stato lasciato in mezzo a una strada per simulare un incidente.
Una vicenda raccapricciante, e un film dell’orrore in cui venivano usati pesanti dischi di ghisa per provocare le fratture, che non può essere considerata «soltanto» come il frutto della perversione di pochi, ma affonda le proprie radici nello stato di prostrazione in cui sono state artatamente gettate le persone più povere delle regioni più povere del nostro paese, per asservirle e renderle manipolali. Che siano politici che ti promettono un posto di lavoro in nero a pochi euro e senza tutele o i mafiosi che ti assumono come manovalanza per lo spaccio di droga oppure i bastardi spaccaossa, la storia non cambia: ti vendi il cervello, la coscienza, la dignità, un braccio, una gamba, la vita stessa perché tanto non hai alternative e perché tanto non hai più voglia di crederci nella possibilità di avere un’alternativa. Perché, tanto, senza la possibilità di un futuro decente, la vita più merdosa di così non può essere. E ne uscirai sempre con le ossa rotte.

giovedì 14 marzo 2019

Bella ciao per l'ambiente

Un’anziana signora di quelle che spacciano per diritti i loro privilegi non sempre eticamente sostenibili era ferma da mezz’ora in un parcheggio nella sua auto con il condizionatore a palla. Scesa dalla macchina per incontrare qualcuno, non era stata minimamente sfiorata dal dubbio che forse lasciare acceso l’impianto in sua assenza potesse essere un po’ esagerato. Mi avvicinai e le chiesi di spegnere. Mi rispose di no. Replicai: «Inquina». La sua risposta fu spiazzante, una botta in testa, una coltellata in pieno petto, un aerosol caricato a monossido di carbonio: «E che me ne frega: importante che stia bene io». Così, come se non avesse figli, nipoti e addirittura pronipoti. Come se la sua famiglia non avesse già pagato all’inquinamento il più insopportabile dei prezzi.
Ogni volta che ripenso a quella scena mi viene in mente Taranto, l’Ilva, la famiglia Riva. I Riva che hanno ammazzato l’ambiente, gli operai dello stabilimento, gli adulti e i bambini che abitavano in zona, e gli animali che respirano quel fumo nero e pesante: tutto in nome del profitto, dell’arricchimento qui e ora. Come se anche loro non dovessero respirare quella stessa aria, come se non avessero figli, nipoti e pronipoti: condannati a morte appena nati.
Chissà quanti anni, decenni, forse secoli ci vorranno – ammesso che ci sia la volontà – per restituire l’azzurro al cielo di Taranto. E chissà quanto ci vorrà prima che si possa riparare il danno fatto dalle industrie, dalla benzina delle nostre auto, dal gasolio per il riscaldamento, da quegli obbrobri estetici ed ecologici attaccati sui muri di palazzi ai cui balconi non fioriscono più le piante. Chissà quanto tempo passerà prima che le vecchie generazioni si rendano conto del disastro. Ottusi, egoisti, sordi e ciechi, il cervello obnubilato dallo smog, continuiamo a prendere a martellate l’ambiente pur di non rinunciare nemmeno a un briciolo dei nostri effimeri privilegi. Per questo le nuove generazioni ci disprezzano, perché spesso quelli diopatriaefamiglia che definiscono l’aborto un crimine non si fanno scrupolo di abortire i loro figli facendogli respirare la merda pur di accumulare strati di denaro, perché dovranno pagare il prezzo della nostra vita smodata e irresponsabile. Per questo si stanno mobilitando in tutto il mondo e domani faranno sciopero per il Global Strike for Future: saranno marea e saranno rivoluzione, saranno una nuova Resistenza contro i guasti del capitalismo. Non è un caso se questi ragazzini, nostri figli, nostri nipoti, hanno realizzato per l’occasione un video con le loro parole d’ordine cantate sulle note di Bella ciao.
E noi dovremo esserci. Io ci sarò: lo devo a Greta, questa ragazzina buffissima che somiglia a Pippi Calzelunghe e che con la forza delle sue idee ha sollevato un problema molto più pesante di un cavallo à  pois; lo devo a Ludovico e Jacopo, lo devo a tutti i bambini che non hanno chiesto di nascere e almeno potremmo usargli la cortesia di farli crescere in un mondo meno schifoso, dove vivere non significhi rischiare la vita.

mercoledì 13 marzo 2019

Giudici che odiano le donne

Secondo la giudice che a Genova ha ridotto notevolmente la pena a un femminicida, il suo stato emotivo era non «umanamente del tutto incomprensibile» perché la sua compagna gli aveva promesso che avrebbe rotto con l’amante e poi invece non lo aveva fatto. Non aveva mantenuto la promessa e lui era deluso. Insomma, il bambino c'è rimasto male e ha reagito male. Niente di più. 
Se fossi uno di quei politici che non mantengono le promesse, mi preoccuperei. Se fossi una cittadina ingannata da uno di quei politici che non mantengono le promesse, mi avrebbero offerto le attenuanti su un piatto d’argento. O forse no. 
In quanto donna, e pure povera, sono certa che mi raddoppierebbero la pena. E mi darebbero anche dell’incomprensibile isterica. 
«Giudici che odiano le donne» li ha definiti il direttore di Radio Capital, Massimo Giannini. E come dargli torto, dopo che – appena qualche giorno fa – altre tre giudici (altre, sì, con la e: donne) hanno assolto uno stupratore perché secondo loro la vittima non era avvenente e dunque non poteva suscitare il desiderio in un uomo? Come se uno stupratore scegliesse la propria vittima per desiderio e non per volontà di sopraffazione. Come se le donne non fossero vittime di femminicidio o di stupro anche se sono brutte, se sono vecchie, se indossano il burqa invece che la minigonna o se calzano le ballerine invece del tacco 12. Incomprensibile.
Però quello che mi risulta davvero incomprensibile è a cosa servono i corsi di formazione. Quelli per i giornalisti che definiscono «love story» l’abuso su una bambina di tredici anni da parte di un uomo di 23 e quelli per i giudici che considerano una donna la vera imputata per la sua uccisione, colpevole a prescindere. Ma forse quel giorno erano assenti giustificati.