domenica 1 maggio 2016

Io mi chiamo G


La signora G., anzianeggiante segretaria in uno studio medico - laddove l'anzianeggiare è condizione mentale più che anagrafica -, scrive al computer alla velocità del bradipo. Monodattilo per la precisione. Il medio, per la precisione. E non sono del tutto sicura che la scelta non sia dovuta all'odio per quello strano strumento che si è intrufolato contro la sua volontà nella sua vita catalettica. Con la meticolosità di un antico viaggiatore su una carta nautica, lei scruta attentamente per un tempo indefinito l'orizzonte della tastiera, individua la lettera, la punta dall'alto come farebbe un rapace con la sua preda e alla fine, zac, la colpisce con l'unghia. Tralascio che fra una lettera e l'altra passa un tempo snervante, che neanche alla moviola e neanche in un parlamento anglosassone in pieno filibustering, e passo direttamente al punto. Il punto è che due giorni fa la signora G. si metteva a sbuffare e urlare tutte le volte che squillava il telefono ed era tutto un rincorrersi di "basta!", "non ce la faccio più!", "non ne posso più!", come se a telefonare fosse uno stalker e non i pazienti dello studio medico. E francamente io, che anche quando facevo un lavoro che non era il mio e non mi piaceva cercavo di sorridere e comunque di essere gentile, avrei voluto ricordarle che rispondere al telefono rientrava fra le sue mansioni e che avrebbe dovuto baciare la cornetta del telefono e quel computer che odia e la sedia su cui sta seduta perché lei un lavoro ce l'ha. Ma a un certo punto non sapevo più da che parte stare.
Perché in fondo quel giorno (ma solo quello) la signora G. un po' di ragione l'aveva, dal momento che quasi tutti quelli che telefonavano - interrompendo il faticoso, tormentato e accidentato tragitto del dito verso la tastiera e costringendola a ricominciare tutto dall'inizio - lo facevano per chiedere un certificato medico che giustificasse un arbitrario e anticipato ponte per la festa dei lavoratori. Magari sono gli stessi che il lavoro lo hanno avuto leccando il culo - non per stringente necessità ma per congenita vocazione zerbinesca - a qualche politico o garantendogli i voti della famiglia fino alla settima generazione e che sbuffano ogni mattina perché "devono" andare a lavorare. Ecco, io che - come ormai la maggior parte in Italia - al lavoro ci vorrei andare e ci andrei (e ci andavo, in effetti) anche con la febbre a 40, auguro a tutti un buon primo maggio. Ma non a tutti allo stesso modo: a quelli che al lavoro ci credono, ai precari, a chi lavora qualche ora "grazie" al caporalato dei voucher e poi si prende un calcio in culo, a chi viene licenziato perché non si piega, a tutti questi un abbraccio circolare. Agli altri invece, a quelli che hanno ottenuto il lavoro svendendo il proprio voto e il proprio cervello, a quelli che una volta erano dalla parte dei lavoratori e adesso occupano un posto di potere per avere svenduto il lavoro e averlo privato dei diritti, ai mafiosi e a quelli che passeggiano sottobraccio ai mafiosi che ci tolgono il sole e la terra, vorrei rivolgere un gesto tangibile del mio apprezzamento nei loro confronti: un gesto amorevole come quello che la signora G. rivolge ai tasti del suo computer. Con la stessa lentezza, così lo vedete bene:  F   U   C   K     Y   O   U.

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