martedì 30 settembre 2014

Cent'anni di amicizia

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Sulla mia Lettera 32 (la stessa con la quale foravo le matrici dei volantini) ho battuto la sua tesi di laurea, a occhio e croce nel mesozoico; insieme a lui - e con altri pazzi come noi, come si è pazzi a vent'anni - abbiamo ciabattato dentro le nostre espadrillas nella casa di campagna dei miei nonni; insieme abbiamo creduto di poter cambiare il mondo; insieme abbiamo cantato allo sfinimento Generale di De Gregori; ci siamo scambiati confidenze e pene d'amore; ho passato più pomeriggi a casa sua che a casa mia, dividendomi fra i miei gatti e il suo gatto, e sua madre mi voleva bene come una figlia; suo padre mi ha regalato uno dei suoi dipinti quando mi sono sposata; suo fratello quando ho partorito mi ha regalato il fascio di rose rosse più grande che io abbia mai visto, manco fosse figlio suo.
Io tutte queste cose quasi non me le ricordavo più: erano conservate da qualche parte. Poi, mentre leggevo il "libretto d'opera" del cd, è stato come quando apri un cassetto: le foto in bianco e nero sono sbocciate tutte insieme all'improvviso.
Il cd è "Cent'anni", l'ultimo di Giampiero Mazzone, cantautore "pluridecorato" (no, qui non allegherò il curriculum - si trova in rete -: e non è che posso fare tutto io!), che è venuto a parlarne qualche giorno fa in occasione del Bukfestival a Catania, la città dove ha vissuto fin quando non è stato necessario diventare grandi e spiccare il volo.
Tipologia particolare di siciliano di scoglio, Giampiero: di quelli che se ne sono andati e dove stanno stanno bene, ma restano attaccati come le patelle non tanto o non solo alla loro terra come entità astratta (o come entità "turistica" di sole, mare, cibo, Etna... e che palle!) ma all'essenza profonda della Sicilia, di cui vive - e trasmette nei suoi brani - le questioni occupazionali mai risolte, l'assistenzialismo, l'emigrazione, il cancro della mafia. Non è un caso se - dopo secoli in terra straniera - alcune delle sue canzoni sono scritte in dialetto siciliano. E così ci ritrovi Fossati, Lolli, De Andrè, Guccini, gli anni Settanta insomma, ma anche (e pure questa è tutta "colpa" degli anni Settanta) le sonorità della musica popolare colta: quella, per capirci, che fa la differenza fra folclorico e folcloristico, che - come ci ha insegnato Alberto Mario Cirese - non sono affatto la stessa cosa.
Insomma, io di musica sul piano tecnico ci capisco poco, anche se appartengo a quella categoria di persone che morirebbero senza, e quindi il mio non può essere un giudizio da esperto. Ma visto che - come dice un altro mio amico - non sto scrivendo una recensione per Ciao2001, che io ci capisca qualcosa o no mi sembra che sia irrilevante. E, per di più, siccome sto parlando di un "fratello", non faccio testo.
I testi li fa lui, il mio amico Giampiero. E quei testi (insieme a quelle note) sono tutti miei, li sento miei: perché mi restituiscono cent'anni di battaglie, cent'anni di rabbia, cent'anni della sua triste ironia, cent'anni di amicizia.

venerdì 26 settembre 2014

Screenshottabili


Mio nonno, ogni volta che vedeva i Beatles in tv, li definiva - accompagnando la frase con una smorfia di disgusto - usando una parola siciliana che arriva dritta dritta dal francese: "Chi ssu affriggiùsi!" Affreux, abominevole, spaventoso, orribile, mostruoso, "extrêmement laid", ladiu dalle parti mie, lariu in catanese. Termine che riservava anche a Paolo Villaggio, soprattutto quando interpretava il professor Kranz.
Gli facevano schifo, li trovava disgustosi (gli uni e l'altro), ma è indubbio che erano entrati nella sua vita, un po' per le foto dei quattro che io ritagliavo dai giornali e appiccicavo - come tutte - sul diario e un po' per il tormentone dei "camilini d pliùsc" che facevo risuonare per casa con le mie imitazioni. E insomma non poteva ignorarli, fingere che non esistessero.
Così come sono certa che se oggi fosse vivo (e avrebbe circa 120 anni) saprebbe benissimo che esistono le intercettazioni telefoniche e gli screenshot. Magari non avrebbe chiaro il meccanismo, non lo si vedrebbe intento a sditeggiare con la mano sinistra in formazione completa per immortalare qualche puttanata di un rivale politico o di un avversario di briscola, ma certamente avrebbe l'accortezza di non scrivere cose compromettenti in una discussione pubblica. E, conoscendo la riservatezza del tipo, credo neanche parlando in chat con una persona alla volta.
Ora, la questione è questa: posto che siamo tutti intercettati e che siamo tutti screenshottati o screenshottabili, posto che ne siamo consapevoli e posto che non c'è cosa più "affriggiusa" e disdicevole della calunnia e che non è lo stesso bisbigliarla in un orecchio o metterla nero su bianco, mi spiegate perché alcuni sembra che ci godano a farsi beccare con le mani nella marmellata? E' stupidità molesta? E' la sindrome da Grande fratello che vi provoca un orgasmo ogni volta che qualcuno ascolta (o legge) le vostre parole, sia pure per sbattervi in galera per narcotraffico internazionale o per tangenti? E' narcisismo al limite dell'esibizionismo? Cioè, vorreste tanto andare al parco, aprire l'impermeabile e tirare fuori il pisello e invece vomitate parole in libertà al telefono o sui social sperando che qualcuno vi noti?
La sensazione è che vi piaccia più farle sapere le cose che farle, come quei maschi che non fanno un punto con le femmine però non fanno altro che raccontare storie da mille e una notte. Ma qui saremmo già nel campo - alto - della psicoanalisi. E invece siamo in quello - sotto il livello delle scarpe e per di più disgustoso, orribile, affriggiusu - dell'arroganza.

mercoledì 3 settembre 2014

Incubatore di solitudine


Qualche giorno fa un mio amico, fotografo di altissimo livello, ha manifestato un certo fastidio per tutti quelli che, senza conoscere nemmeno la grammatica di base della fotografia, condividono scatti improvvisati sui social network. Nei fatti, svilendo la professione.
Da un certo punto di vista, ha ragione: anch'io m'incazzo come una jena di fronte a tutti quelli che, non conoscendo la grammatica italiana né le regole base del giornalismo, si improvvisano giornalisti e hanno la presunzione di definirsi tali. Quando hai fatto secoli di gavetta e affrontato mesi di studio "matto e disperatissimo" prima di sostenere gli esami da professionista, il minimo che possa succederti è che ti girino a elica.
Sento però il dovere di fare una piccola difesa d'ufficio per gli improvvisati e inesperti fotografi - forse perché anche a me da qualche tempo è venuta questa fissa (ma non mi sognerei mai di definirmi "fotografo") -, chiedendo al mio amico fotografo di essere un po' più clemente, perché una piccola differenza c'è.
Prendi la luna. La luna bisogna guardarla in due: uno la vede, dice un "guarda!" come se fosse la prima volta nei millenni che la luna appare nel cielo e tutti e due sollevano lo sguardo accompagnando il gesto con un sospiro.
E se nel momento in cui vedi la luna accanto a te non c'è quell'uno che farebbe due? La fotografi e la metti su Facebook. Senza pretese. Soltanto per dire "guarda!" ad altri "uni" che in quel momento sono da soli in strada, al lavoro, al mare, a casa davanti a quell'incubatore di solitudine che è l'asocial network. E hai la sensazione di non essere da solo.
Anche se sai bene che a quegli uni puoi aggiungere tutti gli zeri che vuoi, farli diventare centinaia, migliaia, milioni, ma non saranno mai due.